La scorsa settimana abbiamo parlato di marketplace digitali, prendendo ad esempio quello più noto e meglio strutturato, l’App Store di Apple.
Beninteso, non si tratta dell’unica piattaforma su cui il denaro viene scambiato digitalmente. Ma senza dubbio gli app store rappresentano un tassello centrale del meccanismo a cui, nel corso degli anni ‘10, ci siamo abituati: pagare per un’app oggi non è più un’operazione complessa né astrusa (o peggio ancora temuta), come in generale non lo è fare acquisti online.
Forse proprio comprare beni fisici tramite un sito o un’app è diventato seconda natura: i sistemi di pagamento sono veloci, sicuri e affidabili, e trovare un pacco davanti alla porta nel giro di pochi giorni è sempre motivo di gioia1; quasi come se all’oggetto fisico corrispondesse un senso di soddisfazione altrettanto palpabile.
Comprare su un mercato digitale, però, può voler anche dire acquistare merce virtuale: bit, non atomi. Che, in quanto slegati dalle leggi della fisica, possono assumere forme nuove, bizzarre ed inesplorate — o semplicemente fungere da perno per nuovi modelli di business, come del resto le stesse app. Con l’unica difficoltà di dover riprodurre detta soddisfazione mantenendosi saldamente nel regno del non-tangibile.
È proprio in questo spazio che si inserisce il discorso più ampio del contenuto a pagamento, che oggi andiamo a vedere meglio.
Per la sua prima decina d’anni, il web si è evoluto secondo principi di apertura e gratuità. Senza sborsare un centesimo (in aggiunta ai costi di accesso alla rete), chiunque era libero di scorrazzare da una pagina all’altra della rete senza il timore di incappare in bollette improvvise. Era — e tuttora è — molto più facile, piuttosto, imbattersi in appariscenti banner pubblicitari, che pur essendo fastidiosi, se non del tutto ostili, hanno dato modo alla baracca di tenersi in piedi.
Internet, come abbiamo già discusso più volte, ha permesso di scalare l’offerta di prodotti e servizi su livelli precedentemente inimmaginabili. Dai confini di una città, regione o stato (a seconda della grandezza dell’entità e dell’efficacia della sua logistica) a, sulla carta, tutto il mondo. Come mantenere una tale operazione e renderla fruttifera attraverso nuove meccaniche di monetizzazione è una questione annosa a cui ancora non si è trovata una risposta universale — se non, appunto, la pubblicità.
Nell’ultimo decennio, però, l’avvento del mobile da una parte e una generale digitalizzazione di massa dall’altra hanno pian piano iniziato a sdoganare l’adozione di sistemi informatici come un extra o un’alternativa di nicchia, e a ribaltare l’intero ecosistema socioeconomico dall’interno per trapiantarlo fermamente su un principio online-first. Avere una presenza nel mondo, oggi, non può prescindere da un sito web, un’app, una pagina social, un canale, un profilo.
Ciò, chiaramente, ha cominciato ad avere effetti a cascata su tutto il resto2, incluso il metodo con cui effettuiamo transazioni commerciali. Di più: è il modo stesso a cui pensiamo al trasferimento di denaro online che è cambiato, portando con sé tutta una serie di affascinanti conseguenze. Partendo dai famosi paywall: i “muri di pagamento” che molti siti web, principalmente testate giornalistiche, hanno adottato per nascondere dietro ad un abbonamento digitale alcuni tipi di contenuto.
Internet ha scorporato (unbundling!) il mondo dei media, iniziando proprio dai giornali e trasformando ogni articolo in una pagina a sé. Articolo che, nella mente di tutti, è sempre stato gratis3; come una singola pagina di giornale, se vogliamo. Il giornale, invece, ha vissuto sugli scaffali solo come un pacchetto unico, ed è quello il modello (bundling!) che i paywall hanno tentato di ricreare per superare la pubblicità. Per alcuni paper, soprattutto i più blasonati — dal New York Times giù fino al Corriere della Sera qui in Italia — l’operazione ha funzionato. Un precedente di peso.
Ci siamo prima abituati a scaricare app dagli store; poi, in alcuni casi, ad acquistarle; ed infine a comprare tipi di merce differenti, dai servizi di streaming a, appunto, abbonamenti ai quotidiani. Nel mezzo, sotto forma dei cosiddetti “in-app purchase” (IAP)4, hanno visto la luce una miriade di altri contenuti digitali, legati alla singola applicazione. Da add-on per le app di produttività a feature esclusive, gingilli puramente estetici (come pacchetti di icone) e svariate forme di skin o monete virtuali nei videogiochi. Proprio questi ultimi, spesso gratuiti ma pieni zeppi di IAP, godono della fetta maggiore dei ricavi, sicché costituiscono il 90% degli introiti degli app store.
Oggi, insomma, compriamo online con disinvoltura; ma soprattutto compriamo cose nuove, che spesso nel mondo fisico non hanno equivalenti.
C’è dell’altro infatti. Il ciclo del bundling/unbundling, com’è noto, è inarrestabile, e le sue dinamiche suggeriscono che ad ogni giro appaiono nuove idee interessanti — alcune delle quali crescono e fanno il botto. Prendete, ad esempio, i soliti noti più recenti: Substack e Clubhouse, e poi aggiungeteci OnlyFans, Twitch, Patreon, Cameo. E Twitter, se vogliamo, che con gli ultimi annunci (gli acquisti di Revue e Scroll e l’introduzione della Tip Jar) si sta riposizionando come piattaforma su cui il denaro può passare anche direttamente, e non più solo per mezzo della pubblicità5.
Gli esempi citati ruotano spesso attorno al concetto della “creator economy”, anch’essa in rapida espansione proprio grazie al passaggio ad una fatturazione rapida e disintermediata. Perché limitarsi a promuovere un brand con un contenuto sponsorizzato o riempire un blog di pubblicità quando è così comodo per i follower (di qualunque tipo) inserire una carta di credito e pagare la prestazione direttamente? È un sistema intuitivo e trasversale, che incentiva il rapporto personale tra chi crea e chi consuma.
Si può pagare chi scrive una newsletter su Substack; chi crea contenuti audio su Clubhouse o roba per adulti su OnlyFans; chi fa streaming su Twitch, chi ha qualcosa di più articolato da presentare su Patreon. E perfino qualche celebrità minore su Cameo per registrare un piccolo video personalizzato. Ancora una volta, il web non si limita a digitalizzare ciò che prima era analogico (come la pubblicità), ma si muove in direzioni nativamente digitali, del tutto nuove, che accorciano le distanze e si espandono man mano che aumenta l’adozione — e viceversa, in un feedback loop che può portare a giri di denaro notevoli.
Perché l’adozione aumenti deve esserci alla base un cambiamento di matrice psicologica: una transizione lunga, sicuramente, ma che ha ormai raggiunto una certa massa critica. La semplicità, la sicurezza (nella maggior parte dei casi), l’efficacia e l’immediatezza dei pagamenti digitali è sotto gli occhi di tutti: che sia un comodo pagamento wireless per i mezzi pubblici o una spesa in più per il cashback, un oggetto fisico acquistato in rete o uno degli asset 100% digital citati sopra. Si tratta, in ogni caso, di qualche tap.
I primi tre hanno un riscontro immediatamente visibile nel mondo reale (o in qualche giorno nel caso del pacco, che deve pur avere il tempo di arrivare), ma è nel quarto campo che è avvenuta la vera e propria rivoluzione. Senza sfociare nell’estremizzazione degli NFT, si è arrivati a costruire un sistema di valore tale per cui alcuni contenuti, pur rimanendo immateriali, valgono la spesa. “Comprare un’email” (sotto forma di abbonamento a una newsletter) non è un’utopia, ma una realtà solida. E questo, in un mondo che si allontana sempre più dalle pubblicità come mezzo principale di auto-sostentamento, è di fondamentale importanza.
Fra l’introduzione dell’ATT di Apple e lo sbriciolamento dei cookie di Google, il sistema degli ad online è prossimo all’accentramento (bundling!) nelle mani di pochi player: la stessa Google insieme con Facebook, certamente, ma anche Apple, che predica bene e razzola male. E, in chiusura, quelle poche altre entità in grado di raccogliere dati di prima mano, come appunto il New York Times. Gli altri business, nel non poter più offrire pubblicità mirata, si ritroveranno a dover mettere in vendita il proprio prodotto o servizio: un web più chiuso, frammentato e separato, più simile al mondo offline che all’internet che abbiamo conosciuto sino ad ora6.
Ma come cambieranno le cose? Il ciclo di accorpamento e scorporamento proseguirà, in nuove forme: magari, ex multis, più newsletter di Substack verranno accorpate, da una parte, e dall’altra qualche vertical del NYT se ne andrà per fatti suoi. I creator forse troveranno vantaggi ad unirsi tra loro, o a far convogliare i fan su piattaforme specifiche piuttosto che tenerli sparpagliati tra un servizio e l’altro. Chi può dirlo — le sfaccettature che assumerà il contenuto online a pagamento sono potenzialmente infinite.
Quel che è certo è che il futuro dei soldi — e di come si muovono — è in rete, in un modo o nell’altro7.
Certo, bisognerebbe tener conto del costo umano di far arrivare quel pacco così presto. Ma è un altro discorso.
È il motivo per cui dico che Futuro Lento, usando la tecnologia come scusa, mi permette di parlare letteralmente di tutto.
Da cui la pubblicità.
Sì, quelli al centro della disputa legale tra Apple ed Epic della scorsa settimana.
Che, a differenza dei nuovi sistemi, è a beneficio unico di Twitter, non dei suoi creator/utenti.
Qui entra in gioco anche un argomento di natura strettamente geopolitica legata alla gestione dei dati; ma è argomento decisamente troppo complesso, per un altro numero.
“L’uno” è quello che abbiamo toccato nel pezzo, il contenuto tradizionale e/o digitale a pagamento; l’altro” sarebbero le criptomonete, ma io continuo a rimanere scettico sul fatto che queste possano davvero spostarsi sul mainstream prima di una decina d’anni. E anche allora, chissà; magari sarà come per le macchine autonome, e nel 2030 staremo lì a dirci che “fra dieci anni tutti useranno i bitcoin…”.