Ehi, buon venerdì! Finalmente una settimana “tranquilla”.
La storia di GameStop, Reddit e Wall Street non è giunta al termine, ma nemmeno lo short squeeze si è (ancora?) materializzato. La gente continua a comprare lo stock, e gli hedge fund stanno tirando fuori il potente arsenale a loro disposizione: una prevedibile guerra di logoramento. Chi avrà la meglio lo vedremo solo nelle prossime settimane.
Restando in tema bellico, intanto, ho deciso di concentrarmi su un unico, insidioso argomento. Ricordate come la tecnologia migliore, quella che funziona meglio, scompare?
Ecco.
Facebook, Apple, i doppiopesismi e gli interessi di bottega
Nelle earnings call dell’ultima settimana, ciascuna delle Big 5 — Apple, Amazon, Facebook, Google, Microsoft — ha riportato profitti stellari. Non c’è da stupirsi: al cuore delle loro operazioni si ergono modelli di business estremamente efficienti e tentacolari, che ad ogni espansione permettono a queste aziende di diversificarsi ed accrescere i bilanci. Fra loro, a frequenze alternate, vige un meccanismo di coopetizione (cooperazione e competizione allo stesso tempo) che definisce le singole relazioni nelle varie aree di competenza. Tutte, si può immaginare, abbastanza complesse; in parte pubblicizzate a gran voce, in parte decisamente più opache.
Se però dovessimo andare a guardare i rapporti “personali”, sarebbe difficile trovare più astio che in quello fra Apple e Facebook. O, più nello specifico, fra i due AD Tim Cook e Mark Zuckerberg. Proprio nella chiamata degli ultimi report trimestrali, rilasciati in un clima di tensione crescente, le frecciatine si sono trasformate in dardi infuocati.
In una mossa altamente inusuale, Zuckerberg ha fatto più volte il nome di Apple. Rivolgendosi agli investitori, ha espressamente detto che l’azienda di Cupertino è uno dei “più grandi concorrenti”. Ha poi menzionato iMessage, il servizio di messaggistica di Apple, asserendo che la compagnia rivale “ha ogni incentivo ad utilizzare la sua posizione di piattaforma dominante per interferire nel modo in cui funzionano le applicazioni nostre e di altri, cosa che regolarmente fa per avvantaggiare le proprie”.
iMessage compete con Facebook Messenger, WhatsApp e Instagram, e poiché sui suoi dispositivi è preinstallato, Apple gode di una fetta di mercato più ampia (negli Stati Uniti). Fin qui, in realtà, tolta la stranezza dei nomi tirati fuori apertamente non c’è nulla di particolarmente bizzarro. Ma il vaso di Pandora era già stato scoperchiato: questa pratica, ha aggiunto Zuckerberg, “impatta la crescita di milioni di business sparsi per il mondo, anche considerando i cambi in arrivo con iOS 14”.
È in quei cambiamenti che risiede la proverbiale goccia, e il vaso traboccato è rappresentato dai ritocchi cruciali alla policy sulla privacy che Apple introdurrà in primavera con il rilascio dell’ultima versione del suo sistema operativo, iOS 14.5. Il nocciolo della questione riguarda un piccolo codice che ogni device Apple porta con sé: si chiama Identifier for Advertisers, o IDFA, ed è lo strumento che permette ai network pubblicitari come quello di Facebook di tracciare i movimenti di un utente da un’applicazione all’altra. Fino ad oggi è valso l’”opt-out”: l’impostazione per condividere l’IDFA era attiva di default, e toccava all’utente cercarla e disattivarla nell’apposito menù.
La modifica, inserita nella nuova cornice dell’App Tracking Transparency (ATT), trasforma il sistema in “opt-in”: tutte le app, inclusa Facebook, dovranno chiedere il consenso espresso dell’utente per poter accedere all’IDFA. Naturalmente, la prospettiva è che la stragrande maggioranza delle persone deciderà di non farsi tracciare, con conseguente dissanguamento del relativo business — sfiderei chiunque a dire “sì” ad un messaggio che recita “[App X] vorrebbe il tuo permesso per tracciare i tuoi movimenti fra applicazioni e siti web di altre compagnie. I tuoi dati saranno utilizzati per mostrarti pubblicità personalizzata. Accetti?”.
Privacy e una scelta più consapevole da una parte, meno soldi ai traffici pubblicitari di Facebook dall’altra. Sembra una storia che lascia poco spazio all’interpretazione. Io stesso ho bloccato il tracciamento personalizzato da tempo, e consiglierei caldamente a chiunque di fare altrettanto. Il carme si scrive da solo: “Facebook brutta e cattiva che miete tutti i nostri dati finalmente prenderà schiaffi — viva Apple che con la sua implacabile lotta isserà la bandiera della privacy più alta che pria!”
È quanto si legge sulla stampa, spesso anche quella specializzata. C’è un fondo di verità, ed è certamente arduo difendere un’azienda come Facebook. Lo dico subito infatti: non è questa la mia intenzione. Come in tutte le cose, però, è più intelligente analizzare il quadro complessivo con cautela, e cogliere i dettagli che sfuggono nel mezzo. Perché stiamo parlando di una scala di grigi non indifferente.
Targeted advertising: cui prodest?
La controffensiva di Facebook, iniziata già la scorsa estate subito dopo la presentazione di iOS 14, ha trovato il suo culmine negli ultimi due mesi con l’acquisto di spazi pubblicitari (!) sulle pagine di New York Times, Wall Street Journal e Financial Times, e addirittura, pare, una causa intentata contro Apple. Al centro della battaglia è la difesa delle imprese più piccole, rievocata anche nella telefonata con gli investor di cui sopra. Ciò che dice Zuckerberg è vero: il colosso di Palo Alto, dopo un paio di trimestri di assestamento, sarà presumibilmente in grado di rimettersi in piedi — uno schiaffo dunque relativo. Chi verrà colpito e/o lasciato isolato, nel bel mezzo di una pandemia che ci vede attaccati ai nostri schermi più che a circolare per le strade, sono proprio quegli sviluppatori indipendenti di app gratuite (che guadagnano solo vendendo spazio per gli annunci) e i negozi che non hanno strumenti finanziari efficaci per l’autopromozione. Entrambi beneficiano immensamente del sistema pubblicitario di Facebook, facendo riferimento al suo universo di terze parti che prende il nome di Audience Network.
Il giro di vite di Apple, se vogliamo, è a tutti gli effetti un attacco all’internet aperto e libero che conosciamo. Un secondo spazio pubblicitario che Facebook ha acquistato sulle pagine dei più famosi quotidiani afferma proprio questo. Correttamente: a differenza del secolo scorso, in cui la pubblicità era generica, strettamente controllata e faceva capo alla televisione, internet, distribuito e decentralizzato, ha permesso a qualunque impresa — grazie soprattutto a Facebook e Google — di raggiungere i migliori clienti in ogni punto del globo, almeno in potenza. Pensate, per dire, ad un servizio digitale sviluppato a Singapore, o alla piccola azienda che costruisce cover per gli smartphone in Canada. Nel mondo analogico, connettere questi business a consumatori lontani sarebbe impossibile, o quantomeno un incubo logistico (che è il motivo per cui i monopoli di ieri, come gli imperi mediatici di cui abbiamo parlato venerdì scorso, accentravano il potere su base geografica); tramite internet, è tutto teoricamente solo a un click di distanza. Ma se i possibili nuovi clienti non hanno alcun modo di sapere che quell’impresa esiste (perché le pubblicità non mirate vanno a vuoto), si annulla il principale beneficio dell’estensione capillare della rete.
Torniamo all’IDFA. Come funziona, esattamente? Poniamo che io stia dando un’occhiata al meteo (via app), e ad un certo punto compaia un annuncio per installare un gioco, guarda caso proprio uno a cui sono interessato. L’ad, venduto da Facebook, mi permette con un tap di scaricare l’applicazione e iniziare a giocare. Poiché l’IDFA segue l’utente attraverso tutti i movimenti, il network pubblicitario (quello di Facebook nel nostro caso) può riconoscermi e avvertire lo sviluppatore del gioco — che ha pagato per quello spazio — che la conversione è avvenuta con successo. Questo, è bene ricordarlo, avviene in maniera automatica, anonima, e in aggregato: né lo sviluppatore del gioco né l’app meteo hanno alcun interesse a sapere chi sia l’utente, quanto piuttosto a misurare l’efficacia della campagna pubblicitaria (su grandi numeri).
Con iOS 14.5, tutto ciò diventerà molto meno frequente, poiché l’utente dovrebbe garantire l’accesso all’IDFA a Facebook (che gestisce il network), all’app iniziale (il meteo) e al gioco, punto d’arrivo del viaggio. Come dicevamo, è altamente improbabile. Scompare dunque il tracciamento, ma rimane la collezione delle informazioni: Facebook, nelle sue app, profila gli utenti con moli di dati straordinariamente massicce, che vanno ben oltre l’IDFA. Ed è proprio con quei dati che, finora, è riuscita a rendere i suoi ad così precisi: se nell’app del meteo compare una pubblicità ben indirizzata a me — io ho usato un gioco come esempio, ma abbiamo tutti avuto esperienze con annunci che sembrano fatti apposta per noi — è proprio perché Facebook ha anche tutto il resto. Di più: Facebook ha tutti gli altri: per arrivare a mostrarmi quel gioco, avrebbe probabilmente individuato in me un profilo analogo ad altri, similmente tracciati, che lo avevano già scaricato.
Fa un po’ paura? Certo. È dunque un bene che Apple stia limitando questa pratica? Guardandola dal lato della privacy, è arduo rispondere no. Ma quale sarà il risultato finale? Ironicamente, Facebook si rafforzerà: all’interno delle sue app l’azienda continuerà a mostrare annunci personalizzati, creati con i dati raccolti sulle sue piattaforme, e incanalare ulteriormente le risorse sulle soluzioni proprietarie (come gli ad per acquisti diretti su Instagram e l’intera piattaforma Facebook Shops). Gli ad sparsi nelle altre app, invece, anziché scomparire saranno solo molto meno precisi: un disincentivo enorme per gli inserzionisti, che ridurranno in modo imponente la spesa. Un crollo che colpirà l’intero Audience Network: partendo dalle app che, come il nostro esempio del meteo, con quella pubblicità campano. Ma farà molto male anche ai piccoli business che senza quella precisione perderanno un modo per, appunto, farsi pubblicità.
Immaginate se invece il messaggio di Apple fosse questo: “Consenti a questa applicazione di personalizzare gli annunci che vedi? La pubblicità mirata permette alle tue app preferite di rimanere gratuite”. Le parole sono importanti!
Miti da sfatare, missioni da compiere
La mira da cecchino spiega perché gli inserzionisti vanno da Facebook (o Google, che opera in modo identico per certi aspetti) nonostante i notevoli costi delle pubblicità nel suo network. È meglio per una piccola impresa spendere qualche soldo in più in termini assoluti se il tasso di conversione è maggiore. E il rendimento è più alto quando si raggiungono i potenziali clienti giusti, che la profilazione granulare di Facebook e soprattutto la comparazione con audience simili permettono di rintracciare con efficienza allucinante. Quel leggero sovrapprezzo è un affare anche per l’app iniziale, che intasca una quota extra per aver concesso il proprio spazio come partner del Facebook Audience Network. Il valore dei dati in piena mostra.
Il tutto, lo ripetiamo, senza che alcuna terza parte, in entrata e in uscita, venga mai a conoscenza di chi effettivamente siano gli utenti target — spot pubblicitari come quello Apple dello scorso settembre, infatti, sono fuorvianti e di pessimo gusto.
Senza l’accesso all’IDFA, in ogni caso, ciò scomparirà in larga parte.
Temo che non scomparirà invece il mito secondo cui Facebook (o Google) vende questi dati. Niente di più falso! Non solo non li vende, ma la loro esclusività spiega il costo superiore degli ad. Pensateci: se un network terzo entrasse in possesso delle medesime informazioni, potrebbe poi offrire agli inserzionisti lo stesso servizio a un prezzo inferiore, entrando in più forte competizione con Facebook. Che se ne guarda invece bene, e ha anzi tutto l’interesse a custodire gelosamente (e in massima sicurezza) quei dati — che in realtà, per via del modo in cui sono filtrati e processati, diventano tecnicamente impossibili da utilizzare per chiunque altro. Ancora: la vastità e la ricchezza delle informazioni in loro possesso costituiscono il vantaggio competitivo che Facebook e Google hanno su tutti gli altri ad network.
Indovinate chi ha contribuito a diffondere il mito? Esatto: Tim Cook! In un discorso tenuto ad un evento a Washington nel 2015, il CEO di Apple disse:
Vi parlo dalla Silicon Valley, dove alcune delle compagnie più illustri e di maggior successo hanno costruito i loro business incantando i loro clienti al punto della noncuranza riguardo le loro informazioni personali. Hanno trangugiato tutto ciò che possono su di voi, e cercano di monetizzarlo. Noi pensiamo che sia sbagliato. Non è questo il tipo di azienda che vogliamo Apple sia.
Noi crediamo che i consumatori debbano essere in controllo dei propri dati. Alla gente potranno anche piacere i cosiddetti servizi gratuiti, ma noi non riteniamo che valga la pena che informazioni riguardanti le email, la cronologia o addirittura le foto di famiglia vengano raccolte e vendute per Dio solo sa quale motivo legato alla pubblicità. Siamo convinti che, un giorno, anche i consumatori vedranno queste pratiche per ciò che sono.
La nota sulla vendita, abbiamo visto, è nei fatti incorretta. L’altra frase che ho evidenziato, invece, è più propriamente scorretta, nel senso che mistifica maliziosamente i modelli di business di Google e Facebook (non citati esplicitamente, ma con riferimento ovvio). Usando lo stesso metro, si potrebbe definire Apple come una compagnia che “vende gingilli sovrapprezzati ad un branco di allocchi”, che è altrettanto scorretto.
Qui si scende al nucleo delle tre aziende, e segnatamente ai loro mission statement — le frasi che ne descrivono a grandi linee il motivo dell’esistenza e, appunto, la loro missione. Quella di Apple è “creare i migliori prodotti al mondo”, perfettamente in linea col business model. È un mission statement che va in profondità (creare i migliori prodotti, non tutti), laddove Facebook e Google si concentrano sull’ampiezza: Facebook vuole “rendere il mondo più aperto e interconnesso”, Google si pone di “organizzare le informazioni del mondo e renderle universalmente accessibili”. Inevitabilmente, per coprire la scala planetaria e raggiungere tutti, il modello dev’essere gratuito. E se è gratuito per i clienti, i soldi possono entrare solo in un modo: la pubblicità.
Poiché è più onesto descrivere Apple come un’impresa che “vende dispositivi elettronici personali con un netto rincaro del prezzo ai consumatori che danno valore alla superiore qualità”, Google e Facebook sono più correttamente identificabili come compagnie che “forniscono gratuitamente servizi inediti, che le persone usano volontariamente, e condividono quell’attenzione con gli inserzionisti”. Rifletteteci: Google Search, YouTube, Gmail, Google Maps, Facebook, Instagram, WhatsApp — tutti strumenti essenziali, che usiamo ogni giorno, senza spendere un centesimo. Noi lo diamo per scontato, ma il sistema alla base non lo è affatto.
Cook, però, è tornato alla carica proprio in settimana, ospite della conferenza Computers, Privacy and Data Protection 2021. L’intervento è addirittura giunto sul canale ufficiale Apple:
Il discorso da paladino della giustizia — che, ripetiamo, se estrapolato è sacrosanto — fa specie considerando da che pulpito viene la predica. Cinque anni fa, i commenti di Cook avrebbero potuto essere derubricati ad un semplice “strategy credit”: una decisione che per una compagnia è semplice, dacché rientra perfettamente in linea col modello imprenditoriale, ma che la fa apparire magnanima in confronto ad altre per cui il compromesso sarebbe spropositatamente più grande. In parole povere, essere meglio di Facebook o Google sulla privacy e la raccolta dati era un sottoprodotto naturale del suo business model, non una scelta sofferta fatta per gli utenti in nome dell’etica.
Ma ora non è più così. L’inasprimento delle misure sulla privacy con l’IDFA e in generale l’attacco al web delineano ormai una strategia mirata e fortemente redditizia per il colosso di Cupertino. Negli ultimi anni, infatti, la macchina stampa soldi dell’iPhone ha smesso di crescere ai ritmi di un tempo, e l’azienda ha spostato l’attenzione sul braccio dei servizi. Ce ne interessano due: l’App Store, che si accaparra bellamente il 30% di (quasi) ogni transazione che avviene sullo store digitale, e — attenzione attenzione — la pubblicità! Cercate una qualsiasi cosa nell’App Store, e noterete che il primo risultato è sponsorizzato. Ci sono annunci anche in Apple News. Ma tu pensa! Apple mostra ad personalizzati, perché sa tutto ciò che fate con i loro servizi (Foto, iCloud, Music, News, Fitness, etc.), segue i movimenti, e mette le informazioni a frutto. Si tratta per adesso di bazzecole, ma è curioso notare come la compagnia permetterà alle terze parti che spendono nel suo ad network di avvalersi dei benefici del tracking che fa — e senza l’IDFA. Due pesi e due misure.
Non si tratta invece di bruscolini per l’App Store, sia per la ricerca/scoperta di nuove app, sia per la monetizzazione. Ricordo che, da solo, il negozio delle app conta un giro da $73 miliardi l’anno (Fortune 15) su cui Apple ha totale controllo. Da un lato, Cook e soci vogliono che le persone tornino almeno in parte ad usare l’App Store come veicolo per trovare nuove app. Dall’altro, sperano di aumentare sempre più i profitti con la gigantesca, ineludibile tassa del 30% (Apple è già da tempo sotto attacco per questo; i due attori più grossi sono Spotify ed Epic Games, dei quali parleremo a tempo debito). Pensate a tutti gli sviluppatori indipendenti e i business che offrono le loro app gratuitamente e guadagnano solo con la pubblicità (l’esempio del meteo): i cambiamenti in atto potrebbero spingerli a rendere i loro servizi a pagamento, tagliando fuori chi non può permetterseli. E chi ci guadagna, guarda un po’, è Apple.
C’è dell’altro: quando fate una qualsiasi ricerca con il vostro iPhone — con Safari, con Siri, attraverso Spotlight — i risultati sono offerti da… Google. Con la sua pubblicità targetizzata. Ma non era brutta e cattiva, come per Facebook? Evidentemente no, o almeno non quando Apple intasca dal gigante di Mountain View dagli 8 ai 12 miliardi netti l’anno (!) grazie ad un accordo esclusivo. Un numero immenso, che da solo contribuisce per il 14-21% dei profitti annuali di Apple.
Se Cook fosse realmente preoccupato del problema, dovrebbe attaccare tutti gli altri ad network, che invece esistono solo in virtù del fatto che vendono i dati che tracciano: aziende come Acxiom, Bluekai, Datalogix (c’è un motivo se non le avete mai sentite); o le banche, che donano con gioia le informazioni raccolte in cambio dell’offerta più alta. Su di loro mai una parola. L’invettiva è rivolta sempre e solo ai rivali, almeno negli snodi della cooptazione in cui prevale la competizione. Qualcuno, maliziosamente, potrebbe parlare di opportunismo…
In medio stat virtus
Dove ci lascia tutto ciò? Abbiamo rovesciato il tavolo? Niente affatto. Come ho ripetuto più volte, io mi trovo moralmente più vicino ad Apple. Ritengo che la privacy, in un mondo digitalizzato, sia un diritto umano inalienabile, e sono a favore del controllo personale dei propri dati; in più detesto gli effetti che le pubblicità producono da un punto di vista dell’esperienza utente, non fosse altro per tutte quelle maledette “x” da premere. Facebook, poi, è piena di problemi, travolta da continui scandali ed invischiata in altre pratiche alla meglio discutibili. La mia fiducia in loro è molto, molto bassa.
Ma il mio, come immagino anche il vostro, è in larga parte un punto di vista privilegiato: io ho la fortuna di permettermi un iPhone, e se un servizio a cui tengo mi offre di pagare per eliminare le pubblicità lo faccio. È un lusso, e in quanto tale va a braccetto con il modello verticale, non quello orizzontale.
La settimana scorsa ho individuato negli abbonamenti il metodo migliore anche per il futuro dei media digitali (che sono business come tutti gli altri), dal New York Times fin giù all’ultima newsletter. Se un domani Futuro Lento dovesse diventare un impiego fisso, preferirei di gran lunga che a finanziarlo fossero lettori che danno valore al mio lavoro, e non degli inserzionisti che comprano uno spazio qua a lato. (È una delle ragioni per cui ho scelto Substack: gli ad su questa piattaforma non esistono, almeno per ora.)
Che Apple sia più moralmente vicina a me non deve tuttavia illuder(c)i: la compagnia segue il proprio business model, e la direzione che prende deve dare sempre un ritorno economico. Non si diventa l’azienda più ricca della storia facendo beneficenza. A volte, ciò risulta in fortunate coincidenze e conseguenze positive — con la privacy, o l’impegno in termini di salvaguardia dell’ambiente e contro il cambiamento climatico. Pensare in bianco e nero ad un attore buono e ad uno cattivo, però, è incredibilmente naive.
Futuro Lesto:
Mi riallaccio per un attimo a tutto il discorso qua sopra. I comportamenti di Apple sono indubbiamente in odore di monopolio. La causa che si vocifera Facebook stia per portare avanti, insieme a quelle già menzionate di Spotify ed Epic Games, vanno tutte in quella direzione. È uscito giorni fa un eccellente essay di Matthew Ball, venture capitalist e persona di grande esperienza nel mondo tech, che traccia un quadro molto ampio e ben definito della posizione di Apple. È una lettura eccellente, altamente consigliata a chi vuole capire di più sul tema. Non mi stupirei se il materiale riportato venisse ripreso nelle corti di giustizia. Ad ogni modo, una cosa è certa: quando, inevitabilmente, i regolatori inizieranno a tirare le leve, i garanti della privacy e quelli della concorrenza si troveranno gli uni contro gli altri. Per anni.
A Tale of Two Amazons: Jeff Bezos ha deciso di fare un passo indietro e farsi rimpiazzare da Andy Jassy (fino ad ora al comando della divisione cloud, AWS) nel ruolo di amministratore delegato di Amazon, per concentrarsi principalmente su come spendere i €2000 al minuto che guadagna sui progetti interstellari della sua Blue Origin. In realtà, più che un passo indietro, Bezos fa un passo in alto: è stata creata per lui la nuova carica di “Executive Chair”. Traduzione: le operazioni quotidiane verranno gestite da Jassy, ma i provvedimenti importanti passeranno ancora dal vecchio Jeff (la cui storia, invero straordinaria, meriterebbe molto più spazio di quello che posso dedicargli qui). Come, ad esempio, il lancio del nuovo campus futuristico da $2.5 miliardi in Virginia. La Amazon degli anni ‘20 ha una quotazione in borsa alle stelle e più soldi di quanti riesce a spenderne — ricordo, en passant, che l’azienda fattura $59 milioni ogni ora, anche grazie agli oltre 400.000 (quattrocentomila!) dipendenti assunti negli ultimi dieci mesi. Proprio su quei dipendenti compaiono però le ombre di un’altra Amazon, con l’annuncio di turni forzati da 10 ore (a partire dalla piena notte) ed altre manifestazioni distopiche quali le videocamere avanzate che riprenderanno continuativamente i suoi autisti “per monitorarne la guida”. Brividi, per un motivo e per l’altro (qui un ottimo thread riassuntivo).
Sempre su Amazon, Bloomberg ha due storie interessanti che riguardano il gaming: la prima traccia il profilo di Mike Frazzini, un executive ai piani alti incaricato di portare al successo i novelli Amazon Game Studios. Un’impresa che, al momento, ha portato solo a un fallimento dietro l’altro. Il perché è presto detto: a differenza di un business tradizionale, per creare del contenuto valido (un videogioco) non basta iniettare un budget virtualmente infinito ($500 mil/anno), e nemmeno strapagare i dipendenti. Serve comprensione del medium, una proposta artistica valida, e soprattutto il tempo (almeno 3-4 anni) per svilupparla — un discorso non troppo diverso da quello di Netflix. Agli AGS pare che non vi fosse nulla di tutto ciò. Il risultato? Aspettative irragionevoli, mancata comunicazione, e un mix disfunzionale di arroganza e ignoranza dall’alto: pare che Frazzini non abbia la più pallida idea di cosa sia un gioco, al punto da non distinguere un trailer prerenderizzato da una sessione di gameplay. Francamente imbarazzante; al punto che il nuovo AD Jassy, dopo la pubblicazione della storia, ha fatto circolare internamente un’email (raccolta da Bloomberg) per rinvigorire gli animi e rinnovare l’impegno nel rendere il gaming un segmento operativo florido. Nel frattempo Google, con presupposti non troppo differenti, ha deciso di chiudere gli uffici di sviluppo interni legati al suo Stadia, a neanche un anno e mezzo dall’avvio. Le più piccole Nintendo e Sony, invece, volano. Chissà perché.
Ci sono nuovi rumor sul visore Apple: dovrebbe essere leggero e portatile, dotato di ben 12 camere e due mini-display a risoluzione 8K (!) per tracciare i movimenti di mani e occhi rispettivamente. Altra tecnologia allo stato dell’arte includerebbe un radar (propriamente un LIDAR) per mappare tridimensionalmente l’ambiente circostante in tempo reale, e un processore fatto in casa di eccezionale potenza. Per fare cosa, tutto questo, non si sa ancora — ma se il prezzo ventilato di $3000 dovesse essere reale, si tratterà di un device destinato a finire nelle mani di imprese specializzate più che ordinari consumatori. Una mossa, lo ripeto un’altra volta, molto poco Apple. Che potrebbe tuttavia avere senso se disegnata per testare le acque, far lavorare gli sviluppatori alla nuova piattaforma, e prendere tempo per ottimizzare il processo di miniaturizzazione (se il goal è quello di arrivare a un dispositivo comparabile ad un occhiale comune) e l’abbattimento dei costi. Qui uno sketch del presunto prototipo.
La pandemia ci ha chiusi dentro casa, e ciò significa che tutti abbiamo adottato la didattica a distanza e/o il telelavoro (smart working, per quelli bravi). C’è chi, comprensibilmente, non vede l’ora di tornare in ufficio. Ma è sempre più probabile che molti impieghi si spostino online in modo permanente, quindi è fondamentale che alcuni dei problemi più grossi vengano risolti. E chi è più competente nello sviluppo e nella distribuzione di strumenti per il lavoro di Microsoft? A Redmond stanno immaginando un futuro progressivamente più flessibile, e la loro visione sta prendendo forma nello sviluppo di una nuova piattaforma chiamata Viva. Il video di presentazione è un po’ romanzato, ma i tool sono reali e in parte già disponibili. Un futuro dietro l’angolo dunque — mi auguro, solo, un po’ più lento di così.
Bene, ora siete qualche passo avanti nel futuro: non vi resta che rallentare. Noi ci vediamo venerdì!