Epic Games e Apple sono in tribunale.
Circa nove mesi dopo il casus belli — l’inserimento illegittimo da parte di Epic di un sistema di pagamento proprietario dentro Fortnite — la procedura giudiziaria vera e propria è iniziata, e ci vorrà un po’ di tempo prima che anche solo le operazioni preliminari volgano al termine.
Sarà una guerra lunga e complessa, formata da molte battaglie. Nel mezzo, tante nuove informazioni continueranno a piovere, spostando gli equilibri da una parte e dall’altra.
Non è mia intenzione fare cronaca sugli avvenimenti; quando la polvere si sarà posata, saranno maturi i tempi per trarre delle conclusioni. E credetemi: ci sarà molto di cui discutere. Nel frattempo, conto di osservare la disputa dagli spalti e seguirne l’evoluzione passivamente.
È certa però una cosa, e cioè che quale che sia il verdetto, il post-Epic v. Apple sarà molto diverso, in un modo o nell’altro. Al centro della questione c’è l’App Store, il mercato digitale di Apple, e il controllo (presuntamente) monopolistico che l’azienda ha su di esso.
Come sempre, quando mi occupo di argomenti che non mastico (non sono un esperto di legge americana), preferisco basarmi sulle conoscenze che ho per provare a pormi i quesiti giusti e avanzare ipotesi, più che avventurarmi in risposte dalla dubbia solidità.
E dunque, oggi come oggi, trovo più interessante l’idea di fare direttamente un grosso balzo in avanti e concentrarmi proprio sullo Store, e segnatamente la forma che potrebbe assumere negli anni a venire.
Il modello App Store: una vittoria per tutti…
Quando l’App Store è nato, nel lontano 2008, il panorama del mondo digitale (e della relativa economia) era molto diverso. Al tempo, Apple aveva venduto circa 6 milioni di iPhone, mentre adesso ce ne sono oltre un miliardo in circolazione. Per non parlare del numero di sviluppatori — e dunque di app — che lo popolano, il cui business ruota interamente attorno all’applicazione stessa.
Scaricare del software da internet, prima dell’App Store, era un grosso problema, dalla duplice natura: mancando un ente centralizzatore (bundling!) era difficile per uno sviluppatore distribuire il software, e dall’altra parte scaricare un qualcosa dal web era sempre, legittimamente, motivo di spavento anche per gli utenti più navigati. In un colpo solo, l’App Store ha risolto entrambi gli aspetti1.
Ad alcune condizioni, però: il sistema sarebbe stato chiuso, legato agli strumenti di Apple stessa, e senza l’accesso chiave ad alcune parti del sistema operativo che avrebbero potuto in alcun modo compromettere la sicurezza dell’utente. Il gioco ha funzionato, ed è il motivo per cui chiunque oggi può entrare nell’App Store, scaricare un’app, e stare tranquillo che non vi sarà alcun virus che manda il telefono gambe all’aria.
Né, soprattutto, alcun percorso nefasto2 che indurrà l’utente più ignaro ad accettare condizioni svantaggiose (per usare un eufemismo) se lo sviluppatore è sufficientemente astuto e meschino da far premere “Ok” o “Accetto” in delle schermate. È stata certamente una vittoria, per tutti.
Ma soprattutto per Apple, che nel tempo ha acquisito sempre più controllo su un maggior numero di applicazioni e sviluppatori, dettando le regole e trovandosi non di rado a doverle riscrivere in corso d’opera. Un tasto dolente, dacché l’inconsistenza nell’enforcement ha più volte tradito come, nella gerarchia delle priorità, ai primi posti sia quasi sempre stato messo “ciò che piace a Apple”.
…specialmente per Apple: ‘mio Store, mie regole’
L’esempio di Epic viene subito in mente: all’interno di Fortnite esiste una valuta digitale, i V-Bucks, che si può acquistare e spendere in vari elementi di gioco. Poiché si tratta di una transazione digitale, Apple mangia(va) il 30%. Perché non è possibile pagare con un metodo diverso da quello ufficiale, ossia i cosiddetti In-App Purchase (IAP)?
Risposta: è ciò che piace ad Apple.
Epic voleva abbassare i prezzi con una soluzione indipendente (non dovendo tenere in conto il sovrapprezzo per bilanciare la tassa), è stato loro negato, ed ora starà ad Apple dimostrare che il 30% — uno standard nel mondo del gaming3 — può applicarsi anche ad uno store generalista come quello di iOS.
La questione è a dir poco spinosa: da una parte il gaming — o meglio, un’azienda come Epic — può sopravvivere benissimo, quindi la richiesta di tenere per sé una fetta maggiore di profitti sarà ardua da giustificare, al netto del ruolo da paladina dei sistemi aperti con cui l’azienda sta cercando di permeare tutta la sua arringa; dall’altra la risposta che Apple dà, ossia che quei soldi servono a coprire i costi di mantenimento dello Store, è veramente poco solida.
E al di fuori del gaming? Libri o musica, ad esempio, poiché viaggiano su margini molto inferiori, sono praticamente esclusi dal fare business. Ma così, appunto, “piace ad Apple”, e metodi alternativi non esistono.
L’equilibrio fra privacy, sicurezza e competitività è importante, ma che nel caso dell’App Store (e di Apple in generale) vi sia un forte sbilanciamento verso i primi due fattori è evidente. Con anche qualche lacuna, visto che alle app review sfuggono comunque tante app (veri e propri scam) che aggirano le regole in altro modo.
Se da una parte l’App Store rappresenta indubitabilmente una piattaforma enorme in grado di aver dato vita ad un miracolo economico, la rigidità e gli errori di Apple cominciano ad andare stretti a più e più sviluppatori, che Epic sta andando a rappresentare. Compresi quelli che si vedono sbarrare all’entrata alcune porte, come persino Google o Microsoft nel caso delle app di Stadia e xCloud.
Perché? Perché secondo Apple queste app, che permettono di accedere in streaming ad un vasto catalogo di videogiochi, dovrebbero far analizzare ciascun titolo dal team delle app review (come app indipendenti) prima di poterli far fruire dai giocatori — un’operazione pretestuosa e insostenibile. Se l’argomento stesse in piedi, Apple dovrebbe analogamente pretendere di mettere al vaglio ogni singolo video su YouTube o serie TV/film su Netflix prima che possano essere visti dai consumatori; chiaramente un’assurdità.
Ma funziona così, arbitrariamente, perché — indovinate un po’ — è così che piace ad Apple.
L’intervento regolatore
La battaglia legale con Epic in California e quelle parallele in Unione Europea, sempre incentrate sul carattere monopolistico di Apple, porteranno inevitabilmente ad una modifica dello status quo. Il come, tuttavia, è interamente da definire: quali regole cambieranno, e quali saranno le conseguenze?
Molti affermano che una soluzione, in modo analogo a quanto avviene su sistemi più aperti (Windows, Android, lo stesso macOS), potrebbe essere dare la possibilità ad altri store di coesistere con l’App Store. Un suggerimento intrigante, in teoria, e tecnicamente fattibile (checché ne dica Apple), ma che considerando la forza della comodità dell’App Store — che rimarrebbe il marketplace di default a cui tutti sono già ampiamente abituati — potrebbe rivelarsi carente ai fini del ripristino della competitività.
Il lavoro degli enti regolatori, come si è spesso visto negli anni, è molto più efficace quando si interviene chirurgicamente nelle meccaniche interne di un sistema già in atto; raramente, invece, quando è solo il “terreno di gioco” ad essere ampliato4. Sarà dunque, a mio parere, la regola del 30% a sparire; mentre, per quanto riguarda l’accesso ai dispositivi, Apple potrebbe essere obbligata ad aprire ulteriormente il sistema5.
La tassa potrebbe scomparire perché Apple viene forzata a tagliarla, o perché viene costretta ad accettare metodi di pagamento alternativi (una tradizionale carta di credito che passa attraverso Stripe, per dire) che la portano ad abbassarla da sé per restare in concorrenza. Magari si potranno acquistare le app con PayPal; o perché no, con delle criptovalute.
…quindi?
Resta, però, un tema di fondo. Il gaming, ad oggi, è la fonte di profitto largamente maggioritaria all’interno dell’economia dell’App Store. L’introduzione di sistemi di pagamento alternativi e/o l’eliminazione (o riduzione) della tassa del 30% potrebbe garantire una ridistribuzione dei circa $15 miliardi che Apple intasca in commissioni. Ma se una decina di quelli vengono meramente dirottati nelle ampie tasche di grossi publisher come la stessa Epic o Tencent6, cosa sarà effettivamente cambiato? Quali effetti percepiranno i consumatori? Soprattutto: quali benefici?
C’è effettivamente dell’altro oltre al gaming? Tolti la musica e i libri, quale mercato digitale potrebbe tornare ad essere competitivo (o proprio ad esistere) libero dalla soffocante tassa? A guardare Android, il cui Play Store mangia similmente il 30% ma che permette comunque di aggirarlo col side-loading, si fa fatica a pensare qualcosa. Non esistono business che hanno potuto fiorire su Android ma non esistono su iOS; cosa che certifica ulteriormente che il problema è nel singolo meccanismo (la tassa) e non nell’intera macchina (l’App Store come unico store).
Quindi? Come scrivevo all’inizio del pezzo — il quindi è tutto da scrivere. Non ci sono sfere di cristallo, e non mi stupirei se ci volessero più e più anni anche solo per iniziare a vedere gli effetti di ciò che risulterà dagli eventi in aula (che per altro, con certezza quasi matematica, verranno appellati). Potrebbero esserci conseguenze monumentali tangibili, come idee del tutto nuove di business che prendono forma; o solo più banali redistribuzioni del denaro dietro le quinte. Lo vedremo.
Ma qualcosa cambierà.
Futuro Lesto:
Twitter è il social network più ingiustamente snobbato che esista. Molti non lo capiscono, e anche chi lo usa tende a spenderci poco tempo, spesso senza nemmeno partecipare alla discussione attivamente. Questo, sicuramente, è in parte attribuibile all’azienda, il cui product team si è mosso a velocità glaciale per circa un decennio. Poi, per qualche motivo, nel 2021 sembra essersi risvegliato da un lungo sonno; adesso è difficile far passare una settimana senza un nuovo annuncio. O addirittura due, come in questa. Il primo deriva dall’acquisto di Scroll, una piattaforma che, per 5$ al mese, toglie le pubblicità dai siti, e che adesso verrà integrata direttamente nel social. Potrebbe sembrare triviale, ma nell’ottica di espansione nel longform ha perfettamente senso. L’idea generale è quella di trasformare Twitter dalla città ad un porto d’ingresso alla città stessa, che andrebbe invece a costituirsi di blog, newsletter, stanze à la Clubhouse e vari altri strumenti per la creazione — e non solo la discussione — di contenuto. Come detto, la capacità di execution non è mai stata il suo forte, ma l’azienda sembra realmente essere impegnata in un’espansione aggressiva dei suoi obiettivi. Partendo, ça va sans dire, dai creator: il secondo annuncio è infatti dedicato a loro. Si chiama “Tip Jar”, e si spiega da sé: una feature per permettere a chiunque di pagare direttamente i propri creator preferiti su Twitter stesso, senza che l’azienda trattenga per sé un centesimo. È un’aggiunta semplice, forse banale, ma comunque un tassello indispensabile per rendere Twitter un social più maturo e appetibile a nuove platee. Chissà che, anche per le masse, non torni di moda.
Fra le decine di idee in cantiere da Netflix — compagnia notoriamente avvezza alle sperimentazioni — si sta ventilando l’idea di un piccolo social network interno, chiamato N-Plus. Tolto il nome tremendamente noioso (e per fortuna tutt’altro che confermato), N-Plus dovrebbe trasformarsi in un luogo per espandere a ragnatela l’universo attorno ai film e alle serie. Se generano così tanto chiacchiericcio, si è pensato, forse sarebbe utile capitalizzarlo internamente, e non lasciare ad altre piattaforme tutto il caravanserraglio di hype. Stando a Protocol, che ha intercettato una survey mandata dall’azienda ad alcuni utenti, “N-Plus è un futuro spazio online in cui imparare di più sugli show Netflix più amati e tutto ciò che li circonda”. E quindi: interviste behind-the-scenes (come quelle già fatte per 13 Reasons Why, ad esempio), podcast, una chatboard, playlist automatiche con tutte le tracce delle colonne sonore, etc.. Ma anche un’opzione social più interattiva, si dice, tramite cui far interagire gli utenti direttamente con la produzione per dare del feedback prima che uno show venga pubblicato. Non c’è altro, per il momento, tantomeno la garanzia che N-Plus venga effettivamente lanciato. Ciò che è sicuro, però, è che Netflix vuole trattenere l’attenzione del suo pubblico ben oltre i titoli di coda, un’impresa che potrebbe richiedere competenze del tutto diverse da quelle di cui l’azienda ora dispone. Assorbo la notizia con del sano scetticismo; voi che ne pensate?
Fra le cose su cui non ho alcun dubbio, invece, è il successo di Nintendo: i numeri in assoluto non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli che abbiamo visto la settimana scorsa col Big Tech, ma in termini relativi si tratta comunque di cifre impressionanti: la casa nipponica ha piazzato 28,83 milioni di Switch nell’anno fiscale appena concluso, un 37% (!) in più rispetto alle 21 milioni di unità dell’anno precedente. Totale: 84,59 milioni di Switch nel mondo. Anche l’ultimo trimestre, anno su anno, ha visto una crescita portentosa del 44% (!!), contribuendo a sbaragliare le previsioni di vendita della stessa Nintendo, già riviste al rialzo dai 19 milioni di Switch pronosticati lo scorso anno ad un più vicino 26,5 milioni — poco più delle 25,5 milioni di console che la compagnia pianifica di vendere nell’anno corrente. Sono cresciuti, logicamente, anche i giochi, dai 168,7 milioni del 2019 ad oltre 230 milioni negli ultimi dodici mesi: 36 di questi hanno venduto più di un milione di pezzi ciascuno, e ben 22 sono firmati da Nintendo stessa. Per una console lanciata quattro anni fa si tratta di numeri eccezionali, che potrebbero portarla a superare i 101 milioni di Wii prima che il ciclo vitale giunga al termine. I due fattori determinanti, oltre alla qualità intrinseca del software? La mancanza di una console portatile da affiancare, terminata l’era del 3DS, e una sorprendente rinascita di tutti i titoli che avevano fallito miseramente su Wii U: basti pensare che, in sette settimane, Super Mario 3D World ha piazzato 5,6 milioni di copie. Per arrivare a 5,9 milioni, la versione Wii U ci ha messo sette anni. Wow.
So che c’entra poco con la newsletter, ma mi concedo ugualmente un piccolo spazio in coda: da oggi è disponibile ovunque il nuovo album di Caparezza, intitolato Exuvia. Mi servirebbe un numero intero di Futuro Lento per ogni traccia, ed è tempo che purtroppo non posso dedicare. Ma posso suggerirvi di ascoltare il disco; e poi di ascoltarlo ancora e ancora. Se vi piace l’idea di un’opera musicale più lenta — ovvero più densa, complessa, stratificata, intellettualmente stimolante, stracolma di riferimenti alti e giochi di parole brillanti e sagaci, che necessita di più rivisitazioni per essere realmente compresa e goduta — non c’è regalo migliore che possiate farvi. Genialità pura.
Ora il vero problema è la discovery, che è sempre più complessa proprio per via del mare di applicazioni che esistono. Ma è un altro paio di maniche.
A.K.A. dark pattern
Xbox, Sony con PlayStation Store e Nintendo sul suo Shop applicano tutte il 30%; tuttavia, questo è giustificato perché il business model nel gaming è quello: le aziende vendono l’hardware (le console) in perdita, e recuperano attraverso la vendita del software (i giochi). Apple sul suo hardware fa margini spaventosi, e gli iPhone sono macchine generaliste, non focalizzate sul gaming — come sono macchine generaliste i PC, i cui store hanno tendenzialmente tasse molto più basse: lo stesso Epic Games Store, ad esempio, applica un 12%.
Questo è anche il motivo per cui quando si sente dire che la soluzione allo strapotere del Big Tech è quella di scorporare le aziende si incappa in una cortina di fumo. Non è così che funziona.
Un esempio pratico: un paio di cuffie Bluetooth di terze parti potrebbe accedere allo stesso sistema rapido di pairing con cui si associano le AirPods.
Che, senza alcun dubbio, provvederanno immediatamente a reinvestirli in annunci nello stesso App Store, uno dei pochi mezzi efficaci per pubblicizzare un’app ora che Apple ha disattivato l’accesso automatico all’IDFA. Oh, the irony…