There are only two ways to make money in business: one is to bundle; the other is unbundle.
La frase qua sopra è di Jim Barksdale, ex amministratore delegato e presidente di Netscape. È una delle mie citazioni preferite. Si può tradurre così: “Nel mondo del business ci sono solo due modi per fare soldi: uno è accorpare; l’altro è scorporare.”
La dinamica del bundling/unbundling è affascinante, poiché si ritrova in una marea sconfinata di ambiti che vanno ben oltre il business. È uno di quei concetti che, una volta appresi, si annidano nella testa e riappaiono ovunque.
Il senso generale è che quando qualcosa cresce a dismisura perde il controllo del raggio che lega il centro alla periferia. La quale tende a staccarsi, diventare indipendente e concentrarsi su un unico aspetto, fino ad ingrandirsi troppo a sua volta e far ripartire il processo.
Io la percepisco quasi come una metafora della vita stessa, come un polmone o un cuore che per garantire il prosieguo del ciclo vitale si espande (unbundle) e si contrae (bundle) a fasi alterne.
In settimana, ragionando più a fondo su Clubhouse e la sua collocazione nella storia dei social media, l’ho ritrovata ancora una volta. Vi propongo qui di seguito la mia analisi.
Il cambio di forma: democratizzazione
Il primo passo a cui abbiamo assistito è stato un unbundling. I programmi radio e TV, i quotidiani — e, in forme diverse, le fotografie — potevano considerarsi dei bundle, dei pacchetti ben controllati e gestiti dai gatekeeper tradizionali: le emittenti radiotelevisive e i giornali.
Ma grazie alla rete, quasi da un momento all’altro, per miliardi di persone è diventato possibile tramutarsi in publisher: di testo, foto, video, audio. Ogni forma di contenuto ha trovato un proprio sbocco, e conferito il potere di pubblicazione a chiunque si registrasse con un nome utente e una password.
La democratizzazione è indubbiamente uno di più grandi meriti attribuibili all’espansione di internet. Democratizzazione, però, vuol dire appunto decentralizzazione (unbundling) — almeno all’inizio.
Per il testo, ciò è avvenuto principalmente con i blog. Soprattutto nella prima metà degli anni 2000, piattaforme come Blogger, Blogspot e WordPress hanno dato il via ad un’era florida per il formato. La rapidità d’uso combinata all’accesso gratuito ne hanno assicurato una vera e propria esplosione.
Nell’ambiente fotografico, Flickr ha velocemente preso il sopravvento. Per condividere il proprio lavoro, i fotografi non avevano che da caricare i propri scatti sul sito e mantenere una vetrina personale, suddivisa comodamente per album — sebbene ciò, vedremo fra un attimo, riguarda più propriamente la distribuzione delle foto che non la loro composizione.
Un discorso analogo è avvenuto per i video, con la nascita di YouTube. La piattaforma, che poi sarebbe stata acquistata da Google, si configurava come un grande calderone in cui trovare virtualmente ogni filmato presente in rete, e un luogo aperto a tutti per mostrare le proprie video-creazioni.
Anche per la radio la nascita dei podcast ha rappresentato un’evoluzione: l’iPod broadcasting (o, appunto, podcasting) metteva nelle mani di chiunque lo volesse l’opportunità di registrare una “puntata” e propagarla in rete — il mezzo principe era iTunes, che tuttavia era più un indice che non una vera e propria piattaforma di hosting. E sempre con iTunes, la musica passava dai CD alle singole tracce in MP3.
La democratizzazione stava raggiungendo la sua massima espressione: per divulgare un testo non serviva più un giornale, bastava una pagina web; per una foto era sufficiente un profilo Flickr, senza dover stampare; passare dalla televisione non era più necessario per diffondere un video; e la radio, con i podcast, perdeva la sua funzione di intermediario indispensabile per la trasmissione audio. Il tutto, il più delle volte, senza dover spendere una lira.
Il primo decennio del nuovo secolo è stato caratterizzato fortemente da questo passaggio, che tuttavia mancava di un aspetto determinante: il metodo di distribuzione, ora aperto, era radicalmente cambiato, ma la natura del contenuto era sostanzialmente invariata. Agire su di essa fu vitale per avviare un secondo procedimento, stavolta di aggregazione, senza però venire meno alla componente democratica del web.
Il cambio di contenuto: digitalizzazione
A ben pensarci, un blog era un po’ come una rubrica su un settimanale; un video spesso si riduceva ad una brutta copia di ciò che c’era in TV (o restava comunque un prodotto grezzo); un podcast era fondamentalmente un programma radio; le pagine su Flickr, come dicevamo, una semplice vetrina virtuale per qualcosa di preesistente.
Gli ultimi dieci anni hanno radicalmente mutato tale scenario. E la chiave di lettura è quella che, in questo momento, potreste avere tra le mani: lo smartphone. Se la “invenzione” di internet ha reso la digitalizzazione dei media fattibile, la diffusione capillare dei nuovi telefoni e l’intuitività propria delle applicazioni hanno trasformato quella potenza in atto — lo smartphone è il bundle perfetto, nelle tasche di tutti.
I cambiamenti principali che ha apportato sono due: il suo utilizzo come strumento di produzione, attraverso le app, e il suo imprescindibile legame con internet, che ha contribuito a recapitare a miliardi di consumatori in modo sostanzioso. Laddove gli esempi citati prima fungevano principalmente da archivi o banchi d’esposizione digitali di oggetti nati altrove, per lo più disgregati, i nuovi social hanno iniziato a sfruttare le caratteristiche insite in un dispositivo mobile e sempre connesso per generare prodotti che non hanno un corrispettivo nel mondo reale, si configurano come dei luoghi di aggregazione (social+network), e rappresentano la quintessenza della rete.
(Ri-)partiamo dal testo. L’arrivo di Twitter, salvo poche eccezioni, ha pressoché decimato i blog. Il perché è presto detto: sebbene un blog sia una pagina che rispetto al cartaceo accorcia l’intervallo di tempo fra scrittura e lettura, non lo elimina del tutto, e rimane statica e decentralizzata. La piazza di Twitter, invece, accorpa gli utenti, e instaura fra loro delle connessioni digitali istantanee: i tweet sono facili da comporre, il meccanismo di ricondivisione stimola a pubblicare le impressioni a caldo sul tema del momento, grazie anche agli hashtag, e il feed costruito verticalmente fa coppia con lo schermo del telefono per una fruizione rapida e non impegnata1. Quei brevi pensieri da 140 caratteri (ora 280), spesso lanciati nell’etere digitale come commento ad un evento in real-time, danno vita ad un flusso (personalizzato!) che nella realtà semplicemente non esiste — e non potrebbe esistere.
Nel campo delle foto il grande vincitore è Instagram. Il gancio iniziale con cui i primi user sono stati pescati riguardava i filtri, gratuiti e in grado di rendere visivamente appetibili gli scatti di bassa qualità che uscivano dai primi smartphone. Che però quegli scatti venissero proprio dal telefono e non da una macchina fotografica professionale fu lo step decisivo: Flickr permetteva a chiunque di caricare una foto, vero, ma il macchinoso processo di esecuzione (avere una macchinetta apposita, portarla in giro per scattare, caricare le foto sul computer) relegava il servizio quasi esclusivamente a fotografi ed appassionati. Ai margini, dunque; decentralizzato (unbundled). Con Instagram ciò è diventato rapido e immediato, dacché tutto il necessario (fotocamera, app, connessone ad internet) era già nel telefono (bundled). In un certo senso, è diventato possibile per tutti diventare fotografi, o comunque reimmaginare la fotografia stessa in un’ottica social e popolare — l’esempio plastico più illustre, ovviamente, è il selfie.
Una seconda epifania è avvenuta con Snapchat, le cui storie sono poi state brutalmente copiate da Instagram (e da altri, incluso LinkedIn): scatti fugaci della durata di ventiquattr’ore, ancora più spensierati dei post. Se questi ultimi sono diventati un po’ come dei piccoli “eventi” a cui dedicare maggiore attenzione, le storie sono quanto di più elementare possa esistere in termini di creazione. Basta scattare, magari inserire un adesivo, postare e dimenticarsene: strumento perfetto per uno smartphone sempre online, impraticabile altrimenti, impossibile nella realtà.
Nei video lo sviluppo si è biforcato. Da una parte, YouTube si è evoluto, reclutando in maniera sistematica i creator e puntando su un prodotto di qualità: guardare un video professionale, oggi, vuol dire quasi sempre recarsi su YouTube2. Dall’altra sono nati due esperimenti intriganti: il potenziamento dell’infrastruttura mobile ha concesso alle live di prendere piede come mai prima, dallo stesso Instagram a servizi dedicati come Twitch (tenendo conto che qui la facilità di ingresso riguarda tanto gli spettatori quanto chi si filma in diretta).
E poi è nato TikTok, che con la sua incredibile accessibilità ha messo nelle mani di milioni la possibilità di montare video altamente creativi e condividerli in pochi tap, complice un algoritmo intelligente che trova con efficacia un punto d’incontro fra la vasta offerta e il genere di clip di cui le persone vanno a caccia. Se per YouTube conta ancora un metodo di autoselezione, per cui uno si iscrive per conto proprio ai canali (unbundled) di particolari creator per guardare i loro video quando vengono caricati, Twitch massimizza l’interazione con le più semplici dirette streaming, mentre TikTok determina da sé la rilevanza del flusso, gettando gli utenti nel fiume di intrattenimento virale. Di nuovo: nel mondo analogico, ciò non sarebbe in alcun modo replicabile.
Twitter, Instagram, Snapchat, Twitch e TikTok sono prodotti squisitamente digitali, largamente abilitati dagli smartphone; e dei social completi, in cui l’arco di interazione — che parte dall’ideazione del contenuto e giunge alla sua fruizione — avviene per intero sulla piattaforma: un bundle, appunto. In più, crucialmente, sono alimentati da un principio che la generazione precedente non seguiva. Lo ha teorizzato per primo Chris Dixon, con la celebre frase “come for the tool, stay for the newtork” (vieni per lo strumento, resta per la gente).
Il motivo principale per cui una persona si iscrive inizialmente a questi servizi è l’originalità del mattoncino concettuale integrato nella loro proposta (il tool): per Twitter i tweet, per Instagram i filtri — e adesso le storie, mutuate da Snapchat — per Twitch le live, per TikTok il video editor. Quello che poi accade è che si ha la possibilità di condividere quanto generato dallo strumento con altri partecipanti direttamente sulla piattaforma (bundling). Ciò tiene gli user agganciati e aiuta ad aggiungerne di nuovi, che a loro volta contribuiscono alla produzione di nuovo contenuto, in un loop di feedback che si autoalimenta e si ingrandisce (like, reshare, influencer — “stay for the network”).
C’è un unico social che fin qui non ho menzionato, ed è paradossalmente il più grande ed iconico di tutti: Facebook. Il motivo è che la piattaforma è nata con un’idea alla base diametralmente opposta, in cui l’amo non era un tool (un generico “condividere”), bensì il network. È infatti l’unica non nativa mobile, in cui il sito web e l’app per telefono sono quasi del tutto sovrapponibili. Ci si iscrive a Facebook non perché permette di fare qualcosa di specifico, ma perché ci sono tutti gli altri. Inizialmente, come raccoglitore, ha funzionato: post, video, link, testo, musica, foto, dirette live… su Facebook c’era e c’è un po’ di tutto. Un mega-bundle, se vogliamo. Ma poi, proprio il tentativo di espandersi tentacolarmente ha prestato il fianco ad una debolezza strutturale, sfruttata dai servizi che hanno trovato successo nel focalizzarsi su uno solo dei vari ambiti (unbundling)3. Tranne uno: l’audio.
Il cambio di Clubhouse: tool o network?
Il percorso dell’audio è stato indubbiamente il più anomalo. I podcast, nati agli albori del nuovo millennio, hanno essenzialmente mantenuto la stessa forma per quasi due decenni. Sono emersi strumenti per facilitarne la produzione, ma la procedura rimane laboriosa e autonoma. Un podcast viene registrato e editato, usando vari programmi, e solo dopo distribuito su canali come Apple Music e Spotify. Che si configurano infatti in modo più analogo ai “vecchi” social, più frammentati, in particolare Flickr o il primo YouTube: luoghi dove è sì relativamente semplice trovare un certo podcast (o, chiaramente, la musica), e fruirne grazie allo streaming, ma non tool che all’atto pratico ne democratizzano la componente generativa.
È in questa cornice che Clubhouse appare come il risultato inevitabile di una trasformazione, il bundling, già avvenuta altrove. Come le piattaforme della seconda ondata, infatti, unisce attraverso l’app le fasi di creazione e fruizione, abbassa drasticamente il livello di difficoltà d’accesso (basta entrare in una stanza), e lo fa con uno spirito geneticamente mobile e digitale (le room sono live). Potrebbe addirittura essere considerato il primo “AirPods social network”, giacché combina i due lati: molti entrano nelle stanze armati di cuffie wireless, lasciano lo stesso telefono da parte, e ascoltano in diretta mentre sono fisicamente impegnati in qualche altra faccenda dal basso carico cognitivo (cucinare, lavare, rimettere in ordine, etc.).
Quel che sarà interessante vedere — e l’elemento che sancirà o meno il successo di Clubhouse — è il valore del tool in rapporto al network. Che l’idea di live audio all’interno delle stanze sia valida è fuori di dubbio: è il motivo per cui il social sta spopolando. Ma si tratta di un mattoncino che può avere senso altrove? Si può, in altre parole, accorpare da un’altra parte? La risposta potrebbe essere sì: non è un caso che sia Twitter sia Facebook siano attivamente al lavoro su alternative analoghe. Resta dunque da capire il peso del network. Dove si trova la gente che voglio seguire?
Clubhouse si sta dando da fare, usando come leva il meccanismo degli inviti e sfruttando i contatti telefonici. L’obiettivo è fare in modo che il network si impianti sullo stesso Clubhouse, e non abbia incentivi ad emigrare. Si potrebbe argomentare che il processo si sta invertendo: invece che “vieni per lo strumento, resta per la gente”, il baricentro si sposta sul “porta la tua gente sullo strumento”. Ciò vuol dire appunto invitare gli amici, ma soprattutto fare affidamento su influencer di ogni tipo per popolare le stanze con i loro folti seguiti e stabilire Clubhouse come il re incontrastato dei social audio.
Il tool delle stanze può essere facilmente copincollato in altri social con dei network pre-esistenti (Facebook e Twitter), ma ciò non è una garanzia di successo. Instagram ha potuto detronizzare Snapchat perché le storie erano un fit naturale per la piattaforma: si trattava sempre di foto. Ma non è affatto detto che gli iscritti a Twitter e a Facebook, che sono in quei portali per motivi che nulla hanno a che vedere con l’audio, siano invogliati ad usarli per prodotti simil-stanze; che è esattamente il motivo per cui le storie su WhatsApp, YouTube o lo stesso Twitter non decollano.
C’è anche da considerare che i network pre-esistenti di quelle due piattaforme sono tendenzialmente omogenei e ben distinti: quello di Twitter formato attorno ad interessi e lavoro, quello di Facebook su amici e conoscenti. L’unico network che già accorpa bene le due categorie sarebbe proprio Instagram, che potrebbe seriamente impensierire Clubhouse con l’annuncio improvviso di un clone integrato dentro l’app stessa (bundling). Al momento non sembrerebbe essere nei piani: per evitare la fine di Facebook, il capo di Instagram Adam Mosseri ha già reso noto che l’obiettivo del prossimo futuro è quello di snellire (unbundling) un servizio che sta diventando, a sua detta, troppo affollato. Ma la Storia tende a ripetersi, soprattutto in istanze di successo, quindi mai dire mai.
Dove Clubhouse avrebbe difficoltà a competere è un modello di crescita basato sulla pubblicità — Instagram è una macchina ben oliata, e può contare sul supporto immenso di Facebook. La buona notizia per loro è che, come abbiamo già discusso la scorsa settimana, l’idea di guadagnare per mezzo di abbonamenti, biglietti, pagamenti diretti come piccole donazioni una tantum e perfino partnership esclusive (per tenere saldamente ancorati alcuni creator di peso e, per estensione, i loro leali seguaci) sembra nettamente più solida4, e difatti la strada espressamente indicata dagli sviluppatori come il futuro di Clubhouse.
La nuova moda dell’audio ha, almeno sulla carta, le gambe lunghe per andare parecchio avanti. Sarà affascinante vedere in che modo progredirà. Ma anche su quello, come sempre, sarà la Storia ad esprimersi.
Futuro Lesto:
Aggiornamenti dall’Australia: Facebook dice no. Poche ore dopo l’annuncio di Google, che come previsto ha deciso di negoziare con i media australiani una partnership pluriennale per schermarsi dall’aberrante legge in arrivo — la tassa mascherata per cui, ogni volta che un link appare sui risultati del motore di ricerca o sul News Feed, Google e Facebook dovrebbero elargire una somma arbitraria al relativo giornale — Facebook ha inaspettatamente preso la soluzione più drastica. In Australia, dunque, non è più possibile pubblicare alcun link a notizie o articoli, e persino a livello globale le testate australiane sono bandite (provate voi stessi a condividere qualcosa). L’argomento è stato sviscerato bene nel numero tre, se volete capire meglio. Ci potranno essere delle conseguenze inattese anche da altre parti. Ma, in breve, la scelta di Google è stata quella più prudente; quella di Facebook, senza ombra di dubbio, quella giusta. Rupert Murdoch, intanto, intasca e se la ride.
Carl Pei è il co-fondatore di OnePlus, una delle startup cinesi che hanno riscontrato più successo fuori dalla terra madre. Per ottimi motivi: i prodotti che hanno lanciato sul mercato sono stilosi e performanti, e hanno coltivato un seguito piuttosto devoto che ricorda la Apple dei primi tempi. Dopo otto anni, però, Pei ha deciso di staccarsi per fondare una nuova compagnia, Nothing. Si sa ancora poco dell’azienda: fra gli investitori ci sono nomi come Tony Fadell (una delle menti dietro l’iPod), Kevin Lin di Twitch, e il celebre youtuber Casey Neistat, mentre l’attenzione dovrebbe essere su prodotti hardware, dal personal computing ad altri dispositivi smart. Con un focus singolare che mi ricorda molto Futuro Lento: tecnologia meno invasiva, più umana, più lenta. Al punto — questo è l’obiettivo dichiarato — di sparire, ”diventare nulla” (nothing). Il talento c’è, l’ambizione pure. Da tenere d’occhio.
Si parla spesso di 5G. Il più delle volte, neanche a dirlo, a sproposito. Quindi chiariamolo subito: il 5G è un argomento noioso. A dispetto delle baraonde che vi si costruiscono attorno (senza contare i ridicoli complottismi), si tratta “banalmente” di infrastruttura della rete mobile. La mole di dati che i nostri dispositivi interconnessi — e sempre più diffusi e veloci — generano necessita di autostrade robuste, per cui ogni 7-8 anni c’è bisogno di ammodernamenti. Sono lavori lunghi e dilazionati, i cui risultati si vedono solo nel tempo: non per niente la “G” sta per “generazione”. Quindi non saltate dalla sedia nell’apprendere che Apple sta già assumendo ingegneri per lavorare sul 6G: internet nel 2030 sarà diverso da quello di oggi, e per arrivare preparati c’è bisogno di iniziare quanto prima. Soprattutto nel caso del colosso di Cupertino, che ormai fabbrica praticamente tutto in casa — tranne, appunto, i moduli per la connettività cellulare, per i quali dipende ancora da Qualcomm. Per ottenere la piena indipendenza avranno da fare. Per la maggior parte di noi, invece, anche il 4G resta per ora più che sufficiente.
Non c’è stato altro di particolarmente avvincente questa settimana, quindi vi lascio con una chicca. Il video del meraviglioso brano “Never Gonna Give You Up” di Rick Astley, che ha oltre undici anni di onorato servizio come clip usata internazionalmente per il più sano trolling online (rickrolling, per i non iniziati), è stato rimasterizzato in 4K. Un meraviglioso regalo alle nuove generazioni.
A ben vedere, Substack è già lo step successivo di un nuovo unbundling: Twitter è troppo veloce e rumoroso, e non va bene per affrontare temi con più calma. Ed ecco che le newsletter somigliano di nuovo ai blog di un tempo — corsi e ricorsi storici.
C’è anche Vimeo, ma nei grandi numeri è quasi del tutto ininfluente. In entrambi i casi, però, proprio per via del livello medio della produzione il lavoro avviene interamente fuori.
Va comunque ricordato che si tratta strettamente dell’aspetto social (e sopratutto quello legato alle fasce d’età più basse) di Facebook, che come piattaforma rimane invece dominante su più fronti.
Questo vale per tutto l’audio, quindi anche i podcast, ma in generale per tutti i tipi di contenuto, tendenzialmente decentralizzati, che richiedono maggiore attenzione, come quelli scritti.