Il numero della settimana scorsa si concludeva così: “Lo spazio per l’innovazione indipendente esiste, e la landscape è sufficientemente ampia da accogliere player piccoli, grandi e grandissimi.”
Non ci sono mai state tante startup quanto oggi, e il ritmo di crescita non accenna a rallentare. C’è vita fuori dal Big Tech, insomma. Oggi, però, mi interessa andare un passo oltre, per vedere come a volte c’è addirittura vita nella lotta diretta contro il Big Tech.
Si tratta di casi limite, non ce lo si può nascondere. Ma il fatto stesso che qualcuno possa anche solo mettere in discussione lo stradominio di Amazon nell’e-commerce è qualcosa che vale la pena investigare.
Se non puoi migliorare il modello, cambialo
Il discorso è questo: tentare di sfidare un’azienda con risorse ben più ingenti è una mossa da kamikaze, ma solo nel momento in cui si tenta di replicarne il business model con qualche orpello in più. Battere Amazon al suo stesso gioco non può essere una strategia vincente. Tuttavia, cercare di risolvere gli stessi problemi aggirandone le leve di manovra con un percorso irregolare — cambiando proprio gioco, se vogliamo — può rivelarsi una tattica risolutiva, disruptive. Ciò è esattamente quanto ha fatto Shopify, di cui Amazon infatti si preoccupa molto più che non di competitor tradizionali quali Walmart o Target1.
Per una lunga serie di motivi, i commercianti di tutto il mondo stanno pian piano iniziando a riflettere sui reali benefici che un marketplace come quello di Amazon offre. Indubbiamente, il potersi affidare alla loro popolarità e all’imponente impianto logistico per distribuire i loro beni può avere enormi vantaggi. Il problema, però, è che con la stessa semplicità tutti i concorrenti possono similmente vendere su Amazon. E lo fanno. Se il business di un’azienda è basato su, per dire, accessori per smartphone, oggetti per la casa o giocattoli, il rischio che il suo prodotto si perda fra mille altri è enorme.
D’altra parte, fino all’arrivo di Shopify, costruire un’alternativa indipendente per l’e-commerce constava di un lavoro non infattibile, ma lungo, dispendioso e complesso. La nuova (appena tredicenne!) piattaforma, invece, permette a chiunque di mettere velocemente in piedi uno store online con prezzi bassi (un abbonamento base costa circa 30€ al mese), supporto IT, e la garanzia che il sito non crolli da un momento all’altro. In più un eccellente livello di personalizzazione, in cui il nome stesso di Shopify è pressoché invisibile, lasciando in evidenza il brand del venditore.
Col grande vantaggio per quest’ultimo, dunque, di stabilire un rapporto più diretto col cliente finale (senza che a porsi nel mezzo vi sia un macigno ingombrante come Amazon) e soprattutto di gestirne in prima persona i dati.
Pensateci: se compriamo una cover o un frullatore siamo portati a dire che “li ho comprati su Amazon”, non dai negozi che effettivamente li hanno messi sul mercato (una sensazione amplificata quando nel carrello si includono più oggetti diversi fra loro, come appunto una cover per telefono e un frullatore). Questo perché Amazon è sempre il nostro punto di contatto. Al contrario, acquistare del caffè da BLK and Bold2 ci fa pensare di averlo acquistato da lì — perché è così! Anche solo per trovare il nome di Shopify bisogna andare a spulciare il codice della pagina, cosa che i più non faranno mai.
Laddove Amazon ricorda della sua presenza dal momento in cui la ricerca parte — su amazon.com3 — alla famigerata scatola di cartone con la freccia sorridente sopra che ci arriva a casa, Shopify gestisce tutti i processi nelle retrovie, permettendo ai singoli mercanti di emergere e stabilire una relazione a tu per tu col cliente; dalla landing page alle email di conferma, passando per i contatti, le recensioni lasciate sul sito, etc., tutto è in mano al venditore. Il consumatore finale, nella stragrande maggioranza dei casi, non saprà neanche che Shopify esiste.
Amazon si comporta da ciò che è: un aggregatore, che accentra a sé ogni aspetto dell’esperienza. Shopify, invece, è una piattaforma, che si copre col mantello dell’invisibilità per lasciare che sia la sovrastruttura che si forma su di essa — le centinaia di migliaia di negozi — a brillare.
In un certo senso, infatti, Amazon e Shopify non sono affatto competitor. Non si può acquistare nulla su shopify.com. Nel 2020, però, più 200 milioni di persone hanno virtualmente passeggiato nell’oltre-un-milione di negozi creati sulla piattaforma, facendo cambiare di mano a ben $120 miliardi di merce — quasi il doppio rispetto al 2019. Per capirci, su Amazon Marketplace quei $120 miliardi si sono visti per la prima volta solo tre anni fa. Mica male.
Piattaforma contro aggregatore: il passaggio da tool a network
La competizione, dunque, esiste, ma ancora in un equilibrio precario in cui le due aziende stanno studiandosi mentre danzano: pensate che le piattaforme si possono perfino integrare l’una con l’altra! Perché Shopify inizi a dare fastidio numerico al gigante, dunque, è necessario che cambino un paio di cose. In mente mi tornano i concetti esplorati nel numero sei: bundling, unbundling, tool e network.
Amazon, come accennato sopra, è un bundle: un luogo (fisico e virtuale) che accorpa tutto — inventario/magazzino, logistica, prodotti, marketplace, sito web con ricerca, relazione col cliente etc. — sotto un unico tetto, il suo. Shopify, per competere, si muove nel senso opposto, scorporando su ogni asse i meccanismi di Amazon per poi risolvere il medesimo problema: vendere merce, o meglio permettere di venderla alle terze parti4. Un unbundling da manuale.
La restituzione del rapporto col cliente ai singoli negozi, tuttavia, porta con sé altri problemi. Il primo fra tutti: come fare a raggiungere nuovi consumatori? Il mercato di Amazon, benché affollato dal punto di vista dell’offerta, gode pur sempre di milioni e milioni di consumatori. Chi lavora da sé deve invece andarli a cercare autonomamente, partendo (virtualmente) da zero. Come fare? Ecco che tornano utili la qualità e la pubblicità.
Una volta che la stack tecnologica è maturata ed è diventata una commodity5 — come è per Shopify, alla cui piattaforma qualunque venditore può aderire a prezzi accessibili — il fattore differenziante torna innanzi tutto nelle mani di chi si occupa del prodotto. In poche parole, perché abbia successo, è fondamentale lavorare sulla qualità, facendo affidamento su persone che conoscono bene il retail nel relativo settore e, se possibile, il prodotto stesso nello specifico. Il raggiungimento di una qualità ottimale non è compito che Shopify (o Amazon, o un’altra azienda tech) può risolvere.
Per quanto riguarda la pubblicità, invece, resta cruciale che i piccoli business abbiano modo di targetizzare i loro potenziali clienti con quanta più efficacia possibile; motivo per cui la battaglia fra Facebook ed Apple, che quest’ultima sta cavalcando opportunisticamente con la maschera del paladino della privacy, nasconde una realtà ben più complessa del messaggio “io buono tu cattivo” che sta purtroppo passando.
Entrambe le cose, però, sono uno sforzo che ricade quasi interamente sulle spalle del singolo commerciante. Il ruolo di Shopify, a ben vedere, rimane qui quello di un semplice strumento: uno aperto, facile da usare, sufficientemente malleabile da essere utile sia per chi vende oggetti fisici sia per chi si occupa di beni digitali; per chi ha un magazzino e per chi opera col dropshipping; per chi ha bisogno di feature specifiche6 ed ha i mezzi per pagarle e per chi ha poco capitale da investire.
Ma pur sempre un tool, non un network. Il fossato che Shopify ha costruito, infatti, non è ancora sufficientemente vasto: potrebbe saltare fuori un competitor che offre un servizio analogo a prezzi più bassi che nuovi e vecchi mercanti potrebbero trovare più vantaggioso, su cui saltare senza porsi troppi dubbi7. Diventare un network vorrebbe dire maturare a fondo come piattaforma (che qui si interpone fra i mercanti e chi si occupa della logistica) e compiere quel passo in avanti che ne potrebbe sancire la legittimità come competitor in grado di impensierire veramente Amazon.
Sotto questo profilo, a mio giudizio, sono due i punti su cui Shopify dovrà fare maggiormente leva.
Il primo è l’integrazione con altre piattaforme, Facebook su tutte: dal momento che l’eliminazione dell’IDFA da una parte e dei cookies dall’altra sta per riconvertire il modo in cui avviene la profilazione su internet, il risultato inevitabile è che chi già gode sia di massicce moli di dati di prima mano sia di una piattaforma interna su cui convertirli in pubblicità accuratamente mirata — leggi: Facebook — diventerà ancora più cruciale per i piccoli brand che vogliono pescare l’acquirente giusto.8 (Sì, avete capito bene: il giochino di Apple finirà inevitabilmente per dare a Facebook ancora più potere.)
Fortunatamente, Facebook Shop è già integrato con Shopify: è dunque possibile per un venditore pubblicizzare il proprio prodotto su Facebook (o Instagram), e all’interno della stessa app trascinare il potenziale cliente con un tap dall’annuncio all’acquisto, facendo poi gestire a Shopify il resto (anche il pagamento se l’utente decide di pagare con Shop Pay, il servizio di Shopify). Il fatto che Facebook ed Instagram siano allo stesso tempo i due social più popolari e luoghi su cui le persone sono già abituate ad interfacciarsi con la promozione di merce di ogni tipo è un’ottima notizia per i mercanti Shopify9. Sarà il canale di distribuzione privilegiato (probabilmente insieme anche a Messenger e WhatsApp).
Il secondo, più importante nel lungo termine, è l’enorme piano di espansione dello Shopify Fulfillment Network, che è invece studiato per andare più testa a testa contro Amazon: si tratta essenzialmente di un’enorme rete composta dai partner di terze parti che offrono servizi di stoccaggio, spedizioni e resi, con tanto di packaging personalizzato (ad immagine del brand, non di Shopify). Un tassello necessario per offrire un servizio affidabile e celere come Prime: l’obiettivo dichiarato di Shopify è portare il prodotto alla porta del cliente entro 48 ore, ovunque nel mondo.
Queste due componenti possono rappresentare il mezzo con cui Shopify passerà dall’essere un mero tool ad un vero e proprio network dalla considerevole forza centripeta, almeno per i mercanti, e un legittimo avversario con mezzi sufficienti per combattere quasi ad armi pari con il braccio e-commerce di Amazon. Che poi si sviluppi anche shopify.com come un sito su cui cercare la merce direttamente è un altro paio di maniche, ma perché ciò possa avere un impatto significativo Shopify dovrebbe aprirsi al pubblico come un brand più tradizionale e consumer-facing, e i numeri al momento non supportano tale scelta.
Meglio il percorso irregolare.
Futuro Lesto:
La scorsa settimana, in passing, ho menzionato il fatto che molto del successo di Apple sia derivato dal suo controllo maniacale dell’intera stack: hardware, software e servizi. Le prime due, in particolare, sono state a lungo un’esclusiva vincente, soprattutto nella battaglia per il mobile lo scorso decennio. Il competitor era da una parte Samsung, a cui mancava il controllo completo sul software, e dall’altra il sistema operativo Android, in mano a Google, che per anni ha sofferto dell’assenza di un hardware dedicato per cui fosse ottimizzato. Poi Apple ha ulteriormente allungato le distanze, andando a progettare i formidabili chip che stanno al cuore dei suoi device. Un percorso che, per giungere a fruizione, impiega anni e richiede spese mastodontiche in R&D. Ma finalmente, pare, Google sembrerebbe pronta a lasciare Qualcomm e Intel sugli scaffali per inserire nei propri dispositivi dei system-on-a-chip (SoC) fatti in casa. Il nome in codice del rumoreggiato “Google silicon” è Whitechapel, e i primi prodotti a montarlo potrebbero essere già annunciati nella tornata invernale. Non saranno da subito performanti come i rivali, ma la mossa strategica, sebbene in gran ritardo, è comunque quella giusta: la necessità di chip va ben oltre gli smartphone, e Google è impegnata da anni a diramare il proprio ecosistema hardware. Io penso soprattutto alla realtà aumentata, oltre che al machine learning — due pezzi di futuro su cui Google non può cedere controllo a terzi. Meglio tardi che mai.
Lo avevano annunciato nei mesi scorsi e ora è arrivato: Clubhouse ha un sistema di pagamenti. Per usufruirne, è sufficiente andare sul profilo del proprio creator preferito e inserire una somma di denaro a scelta, che verrà trasferita al 100% al destinatario. È uno dei building block necessari per rendere autosufficiente il volano per la crescita: se i creator possono essere pagati senza intermediari, avranno un incentivo ad usare Clubhouse (piuttosto che uno dei competitor presenti o futuri), e la presenza di creator porta di per sé nuovi utenti, possibilmente disposti a pagare anch’essi. Il fossato di Clubhouse, di base, è quasi inesistente: non è un caso che la feature principale — le stanze — sia stata scopiazzata (o sia in via di scopiazzatura) ovunque in quattro e quattr’otto. Costruirlo significa trasformare, anche qui, il tool in un network, e convincere le persone ad usare l’app non perché fa qualcosa di particolare o di unico, bensì per la presenza di contenuto che non si può trovare altrove: oggi le room promosse da quei creator, domani chissà. La strada è lunga e Clubhouse ha dietro sé una mandria inferocita armata di carta copiativa, ma i soldi non mancano — si parla di un nuovo giro di finanziamenti che porterebbe la valutazione all’assurda cifra di $4 miliardi — e il talento nemmeno. Stiamo a vedere!
Ogni tanto mi sforzo di trovare l’angolo tech in alcune storie che mi interessano, ma mi rendo conto che la cosa sarebbe troppo forzata e dunque lascio stare. In questo caso, però, reputo l’oggetto in questione troppo interessante per non condividerlo. Si tratta di un’iniziativa del New York Times, un test che vuole mettere alla prova i lettori. Il quiz ci catapulta immediatamente in un punto a caso degli Stati Uniti, selezionato fra oltre 10.000. Una camera ruota per farci dare un’occhiata all’ambiente circostante, un po’ come Google Street View (l’angolo tech?). Da lì, dopo aver osservato più nel dettaglio, si deve rispondere ad un’unica domanda: chi ha vinto fra gli elettori di quell’area lo scorso anno, Biden o Trump? Ci sono alcune zone che chiunque conosca un minimo l’America non potrà che identificare immediatamente, con dettagli che non passano proprio inosservati quali pick-up truck ingombranti e bandiere issate a volontà. Altre, invece, sono davvero insidiose; anche per gli stessi Americani. Se volete provare, il test vi porta in 17 location progressivamente più complesse, con un’analisi dei risultati a seguire. In attesa di qualcosa di simile per l’Italia, Il link è qui!
Vorrei concludere con un’appropriata eulogia di Yahoo Answers, la cui dipartita è stata annunciata in settimana, però immagino che ne abbiate già sentito parlare. Non ci mancheranno le pessime risposte, ma sapere che pezzi di Internet (e della sua storia) possono essenzialmente svanire così nel nulla è un qualcosa che non riesco a digerire. Come sono difficili da digerire i due pezzi che vorrei proporvi, sul cui discomfort vale la pena passare sopra per assorbirne bene i messaggi sottostanti. Futuro Lento è una newsletter che, a grandi linee, vede la tecnologia come una forza in grado di migliorare la vita dei singoli e della collettività. Tanto i prodotti quanto le compagnie che vi stanno dietro, tuttavia, portano con sé i problemi e gli errori insiti nella natura umana, che a volte addirittura esacerbano ed amplificano. Mi capita spesso di pensare, infatti, che il percorso su cui ci siamo immessi come società deleghi troppo alla tecnologia: troppe cose, troppo in fretta. Non credo sia un percorso sostenibile. È per questo che, su due parole, il 50% è dedicato all’aggettivo “lento”, in tutte le sue accezioni. Quando la velocità delle macchine che seguiamo — con cui non possiamo competere — prende il sopravvento, ci scolliamo dall’esperienza umana. Con risultati come questi: il racconto di Emi Nietfeld, ex ingegnere di Google che racconta la sua avventura infelice con la compagnia (spesso dipinta come il paese dei balocchi); e quello di Lauren Goode, giornalista di Wired, che dopo aver annullato il suo matrimonio e terminato una relazione di otto anni si è dovuta trovare a fare i conti con la sua controfigura digitale, un fantasma che tutt’ora la perseguita. Due donne che hanno avuto grande coraggio nel mettere nero su bianco le loro storie. Leggetele, ne vale la pena.
Ecco perché Google non si preoccupa tanto di Bing, ma di Facebook a Amazon, che pur essendo più specifici hanno sviluppato dei loro motori di ricerca. Stesso discorso per YouTube, che tiene molto più sott’occhio TikTok che non Vimeo o Dailymotion. Per fare un ultimo esempio, è quello che avrebbero dovuto fare Nokia e BlackBerry quando venne presentato l’iPhone; storia, poi, che sappiamo com’è andata a finire.
Un esempio a caso fra le migliaia di negozi costruiti su Shopify.
O ovviamente, nel nostro caso, amazon.it!
Chiariamo: circa metà di ciò che si trova su Amazon viene acquistato da Amazon stessa dai grossisti e poi stoccata e rivenduta al dettaglio ai vari consumatori; la parte restante è quella del Marketplace, in cui venditori di terze parti sfruttano i servizi di Amazon (il listing sul sito e tutta la stack del back-end di logistica) per vendere la propria merce. È quest’ultima che Shopify sta attaccando.
Quando, diremmo altrimenti, ha mangiato il mondo.
C’è un intero marketplace di app interne a Shopify che permettono ad ogni commerciante di adattare il sito alle proprie specifiche esigenze attraverso add-on (le app interne) di ogni tipo.
Così come è una follia provare a sfidare Amazon costruendo un’alternativa ad amazon.com, cercare di battere Facebook nell’acquisizione utenti sarebbe un’idea a dir poco malsana. Quindi viva i percorsi irregolari!
Un po’ meno, in realtà, per lo stesso Shopify; è molto probabile che il checkout su Facebook, oltre a Shop Pay, avvenga anche attraverso lo stesso Facebook, o Apple Pay/Google Pay, eliminando la percentuale sulla transazione di cui l’azienda normalmente si nutre. Un sacrificio non indifferente, ma necessario.