Su queste pagine si parla spesso del Big Tech. Ci sono i cinque giganti — Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft — e poi altre realtà di peso come Tesla, Intel, Sony o Samsung. Mi ritrovo spesso a doverne stressare l’imponenza, non solo nell’ambito della tecnologia.
Le prime sono a tutti gli effetti aziende smisuratamente grandi, con le quali è difficile anche solo immaginare di poter competere. Le seconde, parte di una lista parecchio più consistente, rendono comunque difficile l’innovazione a chi è più piccolo di loro.
O almeno, questa è la narrativa che va per la maggiore tanto in Silicon Valley quanto fuori da quei lidi: verrai fagocitato, oppure la tua idea sarà presa e ricreata all’interno di prodotti e servizi già esistenti che godono di una scale per te irraggiungibile. Lose-lose.
Tuttavia, come ogni tentativo di dipingere fette di mondo in bianco o nero, ciò che in tal modo sfugge è una scala di grigi non indifferente, essenziale per cogliere meglio i meccanismi qua in partita.
Da cui la domanda: siamo sicuri che tutta la scena tech sia un campo di battaglia in perenne conflitto dove si può essere solo vincitori o vinti?
Un mito piuttosto diffuso è che i tori siano provocati dal rosso della muleta. I matador la sventagliano di fronte alle bestie inferocite ed esse, irritate dal drappo vermiglio, vi si lanciano addosso con tutta la loro potenza. A volte i toreri riescono a tirare via il mantello un attimo prima; in altre sono meno fortunati.
C’è solo un piccolo problema: i tori sono daltonici. Non distinguono il rosso. Se il telo fosse verde, giallo o viola ci sarebbe comunque poco in grado di tenere a bada l’animale. A scatenare la loro ira non è infatti il colore, ma il movimento.
La cosa mi fa pensare alle piccole aziende che, nel proporsi al mercato con un’idea non già vista, sono spaventate all’idea che i tori Facebook o Microsoft possano essere in agguato nei paraggi. La domanda da porre loro prima che il panico prenda il sopravvento, però, è: vi state muovendo freneticamente, o siete soltanto vestite di rosso?
Diciamo che una compagnia la cui capitalizzazione di mercato conta un numero con nove zeri non ha troppi problemi a tuffarsi in qualche esperimento di tanto in tanto, senza stare a preoccuparsi delle conseguenze economiche. Proprio aziende come Amazon e Google sono note per questo tipo di pratica, al punto da avere intere divisioni dedicate a progetti “a fondo perduto”.
Ma qui non è tanto utile concentrarsi su quello che potrebbero fare, bensì ciò su cui per loro abbia senso investire. Si tratta di un prodotto o un servizio facile da scalare — e dunque rendere appetibile al loro miliardo e rotti di consumatori — e che fa leva sul know-how esistente? O è piuttosto qualcosa che richiederebbe sostanziali ristrutturazioni, magari anche la nascita di un nuovo braccio che risponde a regole e meccaniche differenti?
Nel primo caso, un tentativo di acquisizione (o di spudorata copiatura) sarà lecito e prevedibile, sebbene i risultati saranno tutto fuorché garantiti. Nel secondo, consci di alcuni disastri passati, i colossi di oggi sono decisamente più guardinghi nel buttarsi a capofitto, soprattutto se si tratta di acquisizioni dalla spesa ingente.
Mi viene in mente l’esempio di Microsoft e Nokia, o l’assimilazione di Motorola sotto l’ala di Google. Miliardi di dollari che, nel giro di pochi anni, sono stati presi e gettati al vento. Un’incornata a vuoto. Perché? Le dinamiche sottostanti sono molteplici e complesse, ma alla base si è trattato di provare ad integrare un processo nuovo ed estremamente complesso — la manifattura di prodotti hardware — nelle strutture aziendali di due addetti al software.
Creare hardware e software, però, sono due cose profondamente diverse. Tale integrazione, infatti, è fallita miseramente: Microsoft ha soppresso Nokia, e Google ha rivenduto Motorola a Lenovo per una frazione del prezzo oneroso a cui la aveva acquistata. La conseguenza per entrambe è stata una forzata ripartenza da zero.
Una massima del leggendario informatico americano Alan Kay recita che “chiunque sia seriamente impegnato nella creazione del software dovrebbe lavorare al proprio hardware” — lezione che Steve Jobs ha appreso molto presto, e su cui Apple ha costruito il suo impero. Anche Google e Microsoft l’hanno imparata, ma in ritardo e a proprie spese.
D’altro canto la stessa Apple non ha però mai lanciato, per dire, un’etichetta discografica, un braccio per servizi bancari o una rete di palestre, senza che ciò abbia impedito ad Apple Music, Apple Card o le funzioni sportive dell’Apple Watch di vedere la luce. Semplicemente, in quei casi, Apple ha deciso di entrare in partnership con altre realtà già specializzate e strutturate nei relativi settori (come Goldman Sachs o Nike), per poi offrire ai suoi utenti un contenuto personalizzato (Apple-izzato) e inserito nell’ecosistema più ampio.
Ci sono delle volte in cui, indubbiamente, ristrutturare un’area del business o farne nascere una ex novo può avere un valore strategico: proprio dai fallimenti di cui sopra Google e Microsoft hanno dato vita ai programmi hardware Pixel e Surface, dei quali oggi non potrebbero fare a meno.
Ma il punto è questo: per infilarsi in prima persona in un’operazione che a tutti gli effetti devia in modo sostanziale dal core business, l’incentivo dev’essere forte, o il gioco non varrà la candela — e, come abbiamo visto, senza comunque alcuna vera garanzia di successo. L’hardware è un ottimo esempio.
In quel caso — e solo in quel caso — le aziende con le tasche più profonde avranno tutto l’interesse a spendere. Lo stesso vale per la simpatica prassi di clonazione, la cui barriera d’ingresso è però tendenzialmente più bassa poiché si tratta di software.
Ma comunque, se Substack e Clubhouse stanno avendo così tanto successo che tutto lo spettro delle grandi compagnie tech si sta arrabattando per proporre una loro alternativa analoga, il motivo è proprio che i due unicorni1 hanno trovato un modo di innovare al di fuori del perimetro delle big.
Rimane il concetto di fondo: le aziende citate (Nokia, Motorola, Substack, Clubhouse) hanno creato un movimento tale da giustificare la carica dei tori. Quando ciò accade, a volte il matador ci rimette la pelle; a volte alle bestie inferocite non resta che in mano un pugno di mosche (e magari qualche miliardo netto andato in fumo).
Se invece sono solo vestite di rosso, grandi o piccole che siano, le compagnie innovative hanno meno da temere, e più tempo da dedicare alla costruzione del fossato, ossia della componente esclusiva che rende il loro prodotto/servizio arduo da replicare2. E questo è ciò che accade nella stragrande maggioranza dei casi!3
Del resto, se così non fosse, il numero di realtà piccole e medie in circolazione dovrebbe essere in costante declino (poiché verrebbero tutte messe fuori gioco). Negli anni ‘10, invece, il numero di nuove imprese si è triplicato. Di più: nella storia non si è mai avuto un ritmo così alto di creazione di startup, e ciò significa che in proporzione quelle che devono preoccuparsi dei tori sono sempre meno.
Lo spazio per l’innovazione indipendente esiste, e la landscape è sufficientemente ampia da accogliere player piccoli, grandi e grandissimi. Non è un gioco a somma zero. Quando sentite che “Apple dovrebbe comprare Netflix!”, “Tesla!”, “Disney!” o una qualsiasi startup solo perché “ha lo stesso stile”, dunque, mettetevi in guardia.
E vestitevi pure come a capodanno.
Futuro Lesto:
…e indovinate un po’? A tornare alla carica (!) questa settimana c’è proprio una di quelle aziende che ha resistito alle pressioni dei tori, e che pur avendo avuto notevoli difficoltà si è ritagliata un proprio spazio ai piani più alti. Parliamo di Snap, la parent company dietro Snapchat. Ricordate Snapchat? Ormai in Italia il passaggio ad Instagram, per via delle storie, è già stato completato da anni, ma nel mercato internazionale la strategia di Zuckerberg e Mosseri ha funzionato meno. Snap è ancora una realtà importante, e per cercare di innovare al di fuori del prodotto principale pare che la compagnia di Santa Monica stia per virare nuovamente sull’hardware. All’insaputa dei più, Snap ha già messo sul mercato ben tre versioni dei suoi Spectacles, occhiali con fotocamera integrata usati per scattare foto e video da pubblicare poi come storie tramite l’app. Il nuovo prodotto dovrebbe costruire su questa base, ma introdurre un elemento di realtà aumentata (AR); nello specifico, attraverso le lenti (dei display veri e propri, stavolta) gli utenti dovrebbero essere in grado di vedere i filtri superimposti sulla realtà circostante. Forse ciò ricorda quanto abbiamo menzionato circa Facebook o Apple, perché l’idea alla base è esattamente la stessa: se la AR è la prossima computing platform (e lo è), più e più aziende vorranno una fetta della torta. Sicuramente Snap dovrà riuscire a trovare utilizzi che vadano oltre il solo Snapchat, ma immagino che Evan Spiegel e soci lo sappiano già. Ah, sì, quasi dimenticavo: il report menziona anche lo sviluppo di un drone. Ricordate i droni?
Restiamo in tema. Nell’analisi sopra ho inserito un tweet che menziona l’acquisto di Betty Labs da parte di Spotify. Betty Labs è lo sviluppatore dietro Locker Room, un’app pressoché identica a Clubhouse ma incentrata sullo sport. Laddove il tentativo da parte di Facebook, Twitter o persino LinkedIn di introdurre nelle loro app una funzione che copincolla le room di Clubhouse, a mio giudizio, è destinato a fallire, l’ingresso di Spotify può cambiare notevolmente le carte in tavola. Il motivo è quello discusso sopra: per Facebook, Twitter o LinkedIn l’audio non è una feature già parte del prodotto, ma rappresenterebbe un nuovo braccio a sé stante. Un’operazione che dunque somiglia più a Microsoft/Nokia o Google/Motorola che non, ad esempio, alla trasposizione delle storie da Snapchat a Instagram, che invece appariva come un’evoluzione naturale (e ha funzionato alla grande). Ed è altrettanto naturale l’idea di portare le stanze di Locker Room dentro Spotify, il cui dominio è proprio l’audio: mettere in bella mostra sulla home di Spotify una live room di fianco ad un album e ad un podcast sarebbe del tutto sensato4; vederla accostata ad un tweet o fra un post e l’altro nel News Feed un po’ meno. La difficoltà principale di Spotify è sempre stata rendere semplice l’aspetto di creazione del contenuto (ne abbiamo parlato bene sul numero sei), tendenzialmente lungo e dispendioso. Ora, con un clone di Clubhouse integrato, la medesima facilità di produzione potrà integrarsi nel canale di distribuzione di Spotify: chiunque avrà la possibilità di registrare un podcast (tradizionale o più dinamico, simile ad una room) con estrema accessibilità ed immediatezza, e tentare di farsi strada nel sempre più ricco mondo dell’audio. Orde di creators in arrivo…
Speaking of: c’è un’altra compagnia che, in settimana, ha annunciato il proprio copypaste di Clubhouse — Discord. Discord è un social particolare, che somiglia ad una versione più raccolta di Reddit; ci sono centinaia di community distribuite in vari canali a tema, all’interno dei quali i partecipanti possono chattare e tenersi in contatto. Esistono anche le chiamate in live, ma a differenza delle room di Clubhouse le stanze su Discord sono sempre aperte, e tutti i partecipanti possono accedere in qualsiasi momento. È come una sorta di continua chiamata di gruppo. I nuovi “Stage Channel”, invece, introducono quel minimo di gerarchia che rende i panel di Clubhouse gestibili e focalizzati su un tema. Rimane tuttavia da capire il motivo; Discord non si regge sull’asse creation/consumption, ma su un concetto più orizzontale di community, quindi il valore strategico delle room è tutto da verificare. Quella comunità da ben 140 milioni di utenti (in crescita), però, costituisce il movimento che ha agitato il toro Microsoft, che secondo il Wall Street Journal starebbe per tirar fuori oltre $10 miliardi per mettere il social in saccoccia. Dopo aver inserito nel portafoglio LinkedIn, Mojang (Minecraft), GitHub e ora Bethseda — tutte aziende perfettamente in linea con le sue aree di competenza — ora Microsoft è alla ricerca del tassello mancante, ossia un prodotto più consumer-facing. Dopo che Skype si è fatta rubare l’opportunità da Zoom lo scorso anno (e dopo il fallimento di Mixer, un servizio di live video streaming à la Twitch), Discord potrebbe essere un colpo grosso; prima con un’ovvia integrazione con Xbox, vista la massiccia presenza di gamer sulla piattaforma. Poi si vedrà: le ultime acquisizioni sono riuscite a fiorire perché, pur potendo attingere alle risorse di Microsoft, sono state largamente lasciate ad operare in maniera indipendente. Magari, posto che l’operazione vada in porto, anche Discord sarà un matador fortunato…
Non potevo chiudere la newsletter senza menzionare la notizia della settimana. Spostiamoci dalla terra all’acqua, e nello specifico al Canale di Suez. La storia della nave Ever Given la sapete già, quindi non starò qui a ripeterla. Ciò che però forse non sapete è che sempre Microsoft ha un gioco meraviglioso, il suo Flight Simulator, che permette di planare con diversi velivoli (basati su modelli reali) su riproduzioni virtuali dei vari angoli della Terra. Poiché il sistema si aggiorna usando anche dati raccolti in tempo reale, come immagini satellitari, vi lascio immaginare cosa sia successo…
Substack, a differenza di Clubhouse, non ha ancora raggiunto la valutazione di $1 miliardo, quindi tecnicamente non si parla di unicorno. Ma siamo molto vicini.
Il tutto senza tenere conto di un altro aspetto fondamentale, e cioè che un numero sempre crescente di acquisizioni sta (ri)mettendo il Big Tech sotto lo scrutinio degli enti regolatori anche in termini di antitrust. Il che, naturalmente, crea un ulteriore scudo per le realtà che vogliono restare indipendenti senza temere l’arrivo dei tori.
Ce n’è uno che abbiamo affrontato a fondo su queste pagine: il gaming. Sony e Nintendo, che agli occhi (meglio: ai portafogli) di Google e Amazon sono come due startup, hanno un vantaggio competitivo notevole — il fossato — costituito dal vasto portafoglio di IP esclusive sviluppate negli anni. Competere, per i due tech titan, significa a tutti gli effetti dover creare un nuovo, costoso braccio; e infatti abbiamo visto come sta andando…
Non sarebbe neanche male vedere se gli ottimi algoritmi di machine learning di Spotify possono essere in grado di mettere in risalto ciò che realmente ci interessa… risolvendo, tra l’altro, uno dei più grandi problemi di Clubhouse!
Bravissimo, come sempre.