Sono passati dieci anni da quando Marc Andreessen pubblicò il suo celebre essay “Why software is eating the world”. In esso, il co-fondatore della società di venture capital a16z aveva teorizzato che le compagnie tech stavano, appunto, “mangiando il mondo”, ovverosia entrando nelle altre industrie usando il software come un clava per offrirsi a mercati nuovi o con enormi potenzialità d’espansione.
Andreessen aveva ragione: molte delle aziende che hanno avuto successo negli ultimi dieci anni sono “aziende software”, nei campi più disparati. Ripropongo esempi sempreverde come Uber ed Airbnb; ma anche Instacart, Deliveroo, Stripe, TikTok, Netflix, Skillshare — etc., etc..
Nel momento in cui il software smette di essere un elemento distintivo e si trasforma in un minimo comun denominatore, tuttavia, sembra verificarsi un fenomeno, e cioè che le domande che contano per determinare il buon andamento di una compagnia — e, a ruota, del relativo settore tutto — si slegano dal software, e tornano ad essere questioni di merito.
Per capire come siamo arrivati fin qui è necessario fare un piccolo passo indietro e mettere le cose in prospettiva. Cosa vuol dire che il software ha mangiato il mondo? Ragionando sull’industria tech, che quel software lo crea e lo distribuisce, significa innanzi tutto che non ci si riferisce più ad un settore isolato che si rivolge, al massimo, ad un miliardo di clienti nel mondo (principalmente business).
Si parla a tutti gli effetti della spina dorsale economica e sociale del pianeta, tanto nel B2B quanto soprattutto nel B2C. Le Big 5 (Amazon, Apple, Facebook, Google, Microsoft) non sono solo molto più grandi di quanto non lo fossero i precedenti giganti del tech — tra cui la stessa Microsoft — ma le più imponenti compagnie della storia, tanto in termini di capitalizzazione di mercato quanto di influenza su tutto il resto. A cascata, dozzine di altre realtà permeano le nostre vite sempre più digitali.
Ci sono 4,5 miliardi di smartphone nel mondo, il 75% degli adulti sulla Terra è online, e non esiste attività che, almeno in parte, non faccia affidamento su qualche pezzo di software. C’è chi gestisce il proprio servizio su una piattaforma cloud, chi usa database sofisticati per la gestione, chi vende i propri prodotti e/o servizi in rete, chi fornisce un’esperienza esclusivamente tramite un’app per smartphone, chi banalmente si promuove facendosi pubblicità sui social.
È davvero difficile provare a pensare a qualcosa che sia rimasto del tutto avulso dalla rivoluzione digitale, e l’ultimo anno di pandemia è stato un forte acceleratore anche per i settori la cui controparte analogica, nei grandi numeri, fa ancora la voce grossa (come l’e-commerce).
L’ossatura del mondo moderno è digitale, e digitale è la struttura che vi è stata costruita sopra.
L’infrastruttura tecnologica che cambia le industrie
Per ragionare sulle conseguenze di ciò può essere utile pensare al retail nel secolo scorso. Titani come Walmart o IKEA hanno creato un business basato sulla vendita al dettaglio di oggetti di vario tipo, ma la loro stessa esistenza sarebbe stata compromessa se non vi fosse stata un’infrastruttura alla base. In questo caso l’infrastruttura è quella stradale, che include i truck che permettono ai grossisti di ritirare e scaricare la merce fra un enorme magazzino e un altro.
Si potrebbe dire che è stata l’automobile (e, per estensione, il tir) a cambiare il retail, sia pure indirettamente. Sarebbe corretto. Tuttavia, una volta che il modello si stabilisce e l’infrastruttura diventa una commodity, le domande che contano tornano ad essere di merito: un consumatore andrà ad acquistare da Walmart piuttosto che da Target perché il prodotto è più valido o più conveniente, perché l’acquisto include altri incentivi, o perché c’è qualcosa in esclusiva che il concorrente non vende. Quello che differenzia un’operazione dall’altra ruota interamente attorno al prodotto e a tutta l’esperienza ad esso relativa; più nulla, dunque, che abbia a che fare con i tir o le strade.
Al tempo, Walmart ha usato i truck per cambiare il retail; oggi la storia si ripete col software. Per capire meglio ciò che accadrà domani, però, abbiamo già alcuni esempi di industrie che hanno visto il software stravolgere tutto nei venti anni passati, trasformazione di cui abbiamo potuto osservare le conseguenze. Iniziando dai media, nello specifico dalla musica e dai libri. La prima è stata messa sottosopra inizialmente con iTunes (primo grande unbundling, in grado tra l’altro di spingere enormemente le vendite di un altro prodotto, l’iPod) e poi con lo streaming (Spotify). È cambiato radicalmente il modo in cui la musica si fa, si compra e si consuma.
Si intravede un percorso similare nei libri, che da tempo vengono principalmente promossi e venduti online, quando non diventano essi stessi software (e-book). La digitalizzazione del libro si è anche legata più in generale al fenomeno del self-publishing, che tramite la rete permette a chiunque di scrivere, pubblicare e (in teoria) guadagnare senza versare su carta una goccia d’inchiostro, in un orizzonte che viaggia dai libri fino alle newsletter (il giornalismo è una storia a sé, ma i parallelismi sono lampanti).
Più di recente stiamo avendo riscontri nella TV e nel cinema. Netflix si è imposta sul mercato utilizzando il software come un piede di porco per aprirsi la strada, bruciando nel frattempo tanto Blockbuster quanto una buona fetta del mercato del grande schermo; senza contare i danni fatti alla vecchia pay TV come Sky (un processo che tenderà presumibilmente ad affrettare il passo, pure qui alimentato dalla pandemia). Discorso analogo per piattaforme come Amazon Prime e HBO Max, che hanno trovato successo nell’usare il software per vendere l’intrattenimento direttamente al consumatore con la combo abbonamento mensile e semplice app/sito web.
È lecito attendersi una traiettoria simile anche per il cloud gaming — come discusso sul numero otto, l’infrastruttura del cloud sarà il prossimo tassello fondamentale, che garantirà indubbi benefici a chi prima riuscirà a tradurre in pratica la visione strategica.
A che ragionamento ci porta tutto ciò? L’industria tech entra, scombussola, cambia tutte le carte in tavola e poi va via. Nessuno nel Big Tech si occupa più di musica o libri infatti; l’intero mercato, che viaggia attorno ai $25 miliardi per entrambi, è una frazione risibile dei fatturati di compagnie come Apple o Amazon. Non ne vale la pena. E anche per quanto riguarda la TV, tenendoci sulle due citate, i servizi Apple TV+ e Prime Video sono dei mezzi, non dei fini. Non c’è molto da guadagnare creando film e show televisivi, ma entrambi sono un’ottima scusa per far abbonare gli utenti ai servizi cardine dell’ecosistema; Amazon Prima da una parte, iPhone1 dall’altra.
Il gaming, in potenza, è decisamente più lucrativo, ma è ancora presto per capire in che modo Amazon e Google da una parte e Sony e Nintendo dall’altra convergeranno o divergeranno. Rimane al centro Microsoft, che essendo un colosso in entrambi i settori gode di una posizione privilegiata; tuttavia, come scrivevo tre settimane fa, anche nel suo caso tutte le domande che contano perché Xbox possa trionfare riguardano i videogiochi, non la tecnologia2.
Proprio il caso Xbox è emblematico. Dopo una straordinaria corsa nell’era Xbox 360 (2005-2013), la casa di Redmond presentò la nuova Xbox One puntando tutto sulla tecnologia: il lettore Blu-ray 4K, l’integrazione con i programmi video on-demand, il Kinect integrato, i nuovi servizi online. Purtroppo si dimenticò di foraggiare l’aspetto più importante, ossia le IP, e senza titoli di peso consegnò le chiavi del mercato in mano alle rivali nipponiche.
Si torna, a ben vedere, sempre sul medesimo punto: quando l’onda del software investe tutti, esserne intrisi non è un fattore dirimente, ma una mera condizione d’ingresso. Per risolvere i problemi legati alla competizione, all’innovazione e in generale al successo, è necessario investigarli nel merito del relativo settore. Si torna dunque a parlare di modello di business, di contenuto, di esperienza utente, di customer retention e di market fit; non più di tecnologia.
Spotify dovrà capire come pagare di più e meglio i suoi artisti, e dovrà inventare format nuovi se intende sfondare ulteriormente coi podcast. Il come va chiesto alle label e ai producer, non al Big Tech. Netflix, Prime Video, Disney+, HBO Max e Apple TV+ dovranno battagliarsela con le serie e i film più desiderati dagli spettatori, e lo stesso dovranno fare i publisher di videogiochi: tutte questioni che andranno risolte rispettivamente a Hollywood e negli studi di sviluppo, non in Silicon Valley.
Nuove domande, vecchi problemi
Tornando indietro, l’industria di maggior importanza che la tecnologia ora sta attaccando è proprio quella del retail. È interessante innanzi tutto per via della sua dimensione globale: $20 trilioni (sì, trilioni), un sole a confronto delle noccioline di cui sopra. E l’e-commerce ha appena grattato la superficie. Poi perché ancora un modello consolidato unico di vendita della merce online non esiste; né potrebbe esistere, dacché ogni tipo di merce funziona in modo diverso. Il metodo “tradizionale”, di cui Amazon è il re indiscusso, si regge solo nel momento in cui un determinato oggetto può essere confezionato in una scatola e spedito, ma soprattutto se non c’è bisogno di vederlo e toccarlo preventivamente.
Una fotocamera, un libro, un tavolo o un attrezzo da cucina ad esempio — il problema da risolvere è più legato al far emergere i prodotti giusti che non alla loro vendita in termini logistici. Ma per il fashion, ad esempio, il discorso è differente, poiché poter provare alcuni tipi di indumenti è essenziale (e forse l’esperienza offerta da una boutique non sarà affatto rimpiazzabile, nemmeno nel prossimo futuro). Se ci si sposta sugli alimentari, dovendo sottostare alle leggi del fresco, non è pensabile tenere alcuni tipi di prodotto in un magazzino; mentre la consegna a domicilio dei ristoranti, per dire, risponde ad altre logiche ancora. E così le medicine. Il pet care. L’eyewear. Lo spazio è intimamente diversificato ed eterogeneo.
Ogni azienda, dunque, dovrà capire da sé non solo come far arrivare i propri prodotti al consumatore finale — sempre più spesso, ormai si osserva, vendendo direttamente tramite un sito, un’app, o un angolo nei marketplace come Facebook — ma rispondere a tutta una serie di domande strettamente pertinenti alla loro attività. Come faccio a far scoprire il mio prodotto? Come lo presento? Con che tono di voce stabilisco il mio brand nella comunicazione? Come spendo il mio budget di marketing/pubblicità (che nel digitale ormai si sovrappongono sempre più)? E soprattutto: di che logistica c’è bisogno per la consegna? Sono tutte domande che riguardano il retail, non il tech.
La tecnologia di oggi permette di avere assicurati gli snodi centrali dell’amministrazione nel back-end (Shopify per mettere in piedi il servizio di vendita online, Stripe per le transazioni), ma anche in questo caso il software è un minimo comun denominatore, non un vantaggio competitivo. Per distinguersi nei prossimi anni sarà necessario tornare alle origini, e riportare il focus sul prodotto in sé. Pensare che un product manager a San Francisco possa essere in grado di capire qual è il modo migliore per vendere pomodori o far felice un cliente con una camicia su misura, benché tutto avvenga su un’infrastruttura interamente basata sul software, sarebbe un’ingenua follia.
L’unico mercato che mi viene in mente dove il principio non si applica è quello delle auto. Come dimostrato dal caso Wolkswagen, l’avanzamento verso la guida autonoma richiede un enorme sviluppo della componente software, e disporne potrà voler dire, fuori di dubbio, avere una marcia in più3. Ma ciò significa appunto che il software per l’automazione, oggi come oggi, non è nemmeno lontanamente vicino ad essere pronto, figuriamoci a diventare una commodity. Da una parte, dunque, la disruption deve ancora accadere; dall’altra, le automobili sono fra i prodotti più complessi che esistano al mondo, sia da un punto di vista dell’ingegnerizzazione sia per ciò che riguarda la manifattura vera e propria. I vantaggi costruiti nei decenni dalle case tradizionali non verranno spazzati via dall’oggi al domani solo grazie a qualche esperto di software, motivo per cui la rivoluzione potrebbe essere più morbida ed endogena. Una compresenza dei due aspetti, comunque, sarà imprescindibile4.
Restando sulle macchine, chiudo il cerchio per giungere alla conclusione. L’industria dell’automobile e l’infrastruttura ad essa legata hanno creato un mondo che va ben al di là delle macchine stesse; e, tangenzialmente, hanno permesso la nascita di imperi come i Walmart, Target e IKEA di cui sopra. Oggi il software è nella medesima posizione. Ci sono, come accennato, quasi tanti smartphone quanti sono gli adulti sulla terra. I telefoni sono stati venduti, e quel software ha fatto il suo corso. È arrivato a maturazione. Ha, appunto, mangiato il mondo. Naturalmente le nuove frontiere — su tutte il machine learning e la realtà aumentata — piomberanno come un martello sul mercato, e sconquasseranno tutto ancora una volta. Per alcuni settori, la riuscita applicazione di una nuova tecnologia potrebbe essere sufficiente per raggiungere una posizione dominante. Oggi però, grazie al software, siamo già ad un punto in cui ogni azienda è un’azienda tech, e le domande da fare sono altrove.
Chi risponderà prima con successo, e con quali conseguenze (attese e non)?
Futuro Lesto:
Settimana importante per Intel. È iniziata con uno degli ad più cringe che abbia mai visto: un video in cui si prova a far valere i laptop equipaggiati da chip Intel a confronto con i Mac, usando argomentazioni che scavalcano agevolmente la soglia del ridicolo. E, come ciliegina sulla torta, a fare da attore c’è Justin Long, attore che anni prima aveva fatto da testimonial proprio per Apple in dei famosi spot in cui interpretava un Mac. Poi, in un mistero che non spiega come sia possibile che il reparto marketing del chipmaker sia così scollegato dal resto, il CEO Pat Gelsinger ha tenuto una presentazione straordinaria: carismatico, pragmatico e convincente, ha delineato il futuro di un’azienda che da anni soffre di alcune debolezze strutturali. Gli annunci più importanti riguardano la costruzione di nuove fabbriche negli Stati Uniti e in Europa per ridurre la dipendenza dall’Asia nel cruciale mercato dei semiconduttori ($20 miliardi di investimenti), e soprattutto l’apertura di Intel ad utilizzare i suoi siti produttivi per costruire chip custom per terze parti (tramite una sussidiaria ad hoc), anche sfruttando le architetture di Intel stessa. È un piano ambizioso, ma del tutto realizzabile, sulla cui esecuzione si gioca una partita dalle tinte geopolitiche non secondarie: i chip, ricordiamolo, sono ovunque, e ve n’è immensa necessità. Gelsinger, che ha assunto il ruolo da pochi mesi, è una figura amata e stimata in Silicon Valley, e dunque per la prima volta in tanti anni regna un po’ di ottimismo.
L’analisi del numero quattro era interamente dedicata ad Apple, la decisione di levare agli sviluppatori di app l’accesso automatico all’Identifier for Advertisers (IDFA), e le conseguenze di questa scelta, soprattutto per ciò che riguarda Facebook. L’entrata in vigore dell’ATT — App Tracking Transparency, il nuovo framework per il tracciamento studiato dalla casa di Cupertino — è imminente, ma oltre a Facebook c’è un intero mercato che si sta muovendo in parallelo per “risolvere” la questione da sé: la Cina. Il Paese orientale è l’unico con cui Apple è già dovuta scendere a compromessi, come ad esempio la rimozione dei sistemi di criptazione end-to-end per i backup di iCloud (con server in Cina) e la riduzione della tassa del 30% su acquisti tramite App Store per aziende quali Tencent. Ora, però, gli sviluppatori cinesi stanno tentando di forzare la mano in coro, introducendo nelle app un’alternativa all’IDFA chiamata CAID (Chinese Advertisers ID) che permetterebbe alle app di identificare i singoli dispositivi. Ciò va contro le regole dell’ATT, e Apple ha fatto trapelare che prenderà le dovute contromisure. Sarà tuttavia un braccio di ferro curioso da osservare — tali contromisure possono andare dal negare futuri aggiornamenti alle app fino al cacciarle via dallo store del tutto. Tuttavia, poiché si parla di app che tengono in piedi un pezzo enorme del sistema digitale cinese, è facile immaginare un intervento governativo laddove le tensioni dovessero crescere. La situazione è delicata, il mercato è troppo grosso perché Apple faccia mosse affrettate, e allo stesso tempo piegare anche queste regole esclusivamente in Cina potrebbe creare forti mal di pancia altrove (la tecnologia è geopolitica, parte seconda). Soprattutto considerando la forte attenzione che Apple ha nei confronti della privacy, sarà determinante vedere come si muoverà per evitare accuse di doppiopesismo. Non una situazione invidiabile.
Dal numero sette: “[…] tutto ciò che ha importanza spesso nasce come un gioco, preso in giro e schernito. Fino a che, apparentemente da un momento all’altro, quel potenziale prende forma e tutte le dinamiche vengono stravolte.” Il contesto della frase era in riferimento agli NFT, ma la notizia della settimana fa sempre riferimento all’universo crypto, e in particolare al Bitcoin. Le criptomonete si trovano a metà della S-curve dell’innovazione: all’estremità sinistra, oggi, troviamo la tecnologia self-driving, che è ancora in fase di definizione, mentre a quella destra c’è il software, maturo, di cui abbiamo parlato sopra. Nel mezzo si trovano le tecnologie che funzionano ma senza aver trovato ancora un’applicazione pratica nel mercato, come appunto le criptomonete (o il machine learning). Gli NFT hanno un buon potenziale, ma se vi dicessi che Elon Musk ha annunciato che si possono acquistare Tesla direttamente con Bitcoin? Siamo, sulla carta, di fronte ad un cambiamento storico, non solo perché questa mossa rappresenta una validazione per le criptomonete in generale, ma soprattutto perché la compagnia non intende convertire i bitcoin in moneta fiat. La pentola bolle già da un po’; fra poco, forse, inizieremo a vedere il cibo nei piatti.
Vi lascio con un video. Chiunque abbia imparato una seconda lingua sa che, ai fini della comunicazione, l’esperienza sul campo conta più dello studio di stampo accademico. Nelle scuole si segue una mappa sbagliata, che porta a conoscere (almeno in teoria) solo i mattoncini che riguardano la grammatica, la struttura logica e alcuni aspetti del lessico. Non si impara però a tirare su nemmeno un muretto, e alla prima conversazione in una situazione di vita reale ci si blocca. Forse allora un buon modo per acquisire dimestichezza è pensare al percorso di apprendimento come… un videogioco? È così che Johnny Harris — un eccellente giornalista e storyteller americano — ha provato ad imparare l’Italiano. Buona visione!
L’iPhone, ormai, è come un servizio: costa in media €1000, e lo si rinnova ogni uno o due anni.
Come sottolineato nel numero otto, questo è sempre stato vero nel mondo del gaming. Tuttavia, se piattaforme come Stadia non hanno fallito del tutto e Amazon — altro nuovo player — spera realmente di potersela giocare, è proprio perché l’infrastruttura tecnologica del cloud, al momento, è un indubbio vantaggio. Io, però, immagino che faranno prima le vecchie Sony e Nintendo a sviluppare una piattaforma di cloud gaming convincente e competitiva che non Google o Amazon ad offrire un parco titoli per cui valga la pena spendere.
L’ho scritto e non me ne pento.
Il che è del tutto comprensibile, visto che per la prima volta in un secolo si sta ripensando a cosa sia l’automobile. E dunque, se la macchina del futuro sarà un oggetto radicalmente diverso da quello che conosciamo oggi (nella sua funzione urbana e sociale) magari gli esperti che porranno le questioni di merito non saranno né veterani dell’auto né ingegneri informatici — potrebbero essere, ad esempio, esperti di intrattenimento, capaci di studiare i nuovi modi in cui si passa il tempo mentre il mezzo ci accompagna…