Ehi! Eccoci di nuovo qua. Grazie a tutti per i commenti sul primo numero — siete rimasti soddisfatti per la stragrande maggioranza, e non posso nascondere che le vostre parole mi abbiano tranquillizzato e incoraggiato.
Nota: sia dal punto di vista della struttura sia da quello della lunghezza, nulla è ancora deciso al 100%. Futuro Lento cambierà. Il come dipenderà molto dalle notizie della settimana, ma anche il vostro feedback sarà importante per capire cosa funziona e cosa no.
Una newsletter inizia ad avere un senso solo dopo un po’, e il rodaggio è necessario. Che sia il mezzo giusto, però, è l’unica certezza che ho. Lo è per Futuro Lento, ma in questo splendido essay Robin Rendle fa capire perché il discorso, a meno di ripensare profondamente al web, si possa estendere alla scrittura online in generale.
Substack e le newsletter
(Ri-)partiamo da qui allora.
La mia non è un’intuizione geniale; le newsletter stanno esplodendo un po’ ovunque. Tutti sembrano averne una, ed è un trend che non accenna ad arrestarsi. Ma non sono certo un’idea nuova: le più vecchie risalgono addirittura a prima dello stesso internet. Fred Hickey, ad esempio, scrive la sua High Tech Strategist dal 1987 (ha iniziato mandandola via fax).
Neanche la pubblicazione indipendente è una novità. Chiunque può aprire un sito, o banalmente una pagina Facebook. Perché l’impennata dunque? I motivi per cui il modello sta funzionando sono essenzialmente tre:
1) Gestire una newsletter, grazie a piattaforme come Substack, è diventata un’operazione alla portata di tutti. Creare un sito, invece, può presentare sfide tecniche ancora troppo elevate per molti, soprattutto perché richiede consapevolezza nella fusione armonica di elementi disparati (e conoscenza, anche basilare, di HTML, CSS, hosting, domini, etc.).
2) Entrare nella inbox di un lettore vuol dire mandare una notifica, che richiama l’attenzione, ed instaurare con esso un rapporto che viene alimentato con costanza. Sono io (publisher) a venire da te (lettore), e non il contrario. I contenuti pubblicati sul web svaniscono in fretta nell’etere digitale, sovrastati da quello che arriva immediatamente dopo; a meno di avere un’audience dedita pre-esistente, farsi notare diventa virtualmente impossibile. Lo spazio nella casella di posta ha invece un peso notevole, oltre che una parvenza di tangibilità.
3) Il processo di monetizzazione è ormai efficiente (aspetto essenziale: l’impegno di una newsletter a cadenza fissa per molti è un lavoro vero e proprio, e come tale va finanziato). Substack integra nativamente Stripe, che si occupa delle transazioni: è sufficiente collegare il proprio conto, attivare una membership e stabilire un prezzo. Ci sono delle tasse (Substack prende un 10%, Stripe il 3%), ma il setup è immediato. È semplice per chi scrive, ma funziona anche per i lettori: internet ci sta abituando agli abbonamenti come metodo di pagamento standard per la fruizione di servizi, e sta venendo giù la riluttanza di anche solo qualche anno fa. L’integrazione di un payment processor su un sito indipendente, per contro, è cosa decisamente più complessa.
Ne aggiungerei un quarto, che è un pilastro fondante di Futuro Lento: la mail non cambia, non si aggiorna, ed è confezionata in modo tale da poter essere consumata quando si ha tempo, volendo anche in più spezzoni. Questo ha meno senso per le newsletter quotidiane, il cui contenuto diventa giocoforza obsoleto ogni ventiquattr’ore. Ma, laddove l’argomento trattato lo concede, la staticità diventa forse l’elemento distintivo determinante.
Prendiamo la tecnologia: un tema che, oltre alla sua sconfinata estensione orizzontale, corre più velocemente di sé stesso, e necessita disperatamente di essere preso ed analizzato con calma (se l’obiettivo è capire cosa sta accadendo più che avere l’ultima notizia). Abbandonare l’idea che le due cose siano legate è già un primo passo; poi è necessario che qualcuno, un intermediario, sia capace di fare il lavoro di scrematura, selezione e contestualizzazione, e Futuro Lento è nato esattamente per questo.
Dicevamo però che le newsletter sono sulla bocca di tutti nel mondo dei media (e in Silicon Valley), con giornalisti di peso che lasciano alle spalle i loro desk in redazioni grandi e consolidate per avventurarsi in solitaria (ex multis: Glenn Greenwald, premio Pulitzer, da The Intercept; Matthew Yglesias da Vox; Casey Newton da The Verge; Anne Helen Petersen e Alex Kantrowitz da BuzzFeed News). Così facendo hanno ottenuto due grandi risultati: indipendenza editoriale quasi assoluta — la cui bontà è discutibile — e salari da capogiro che vanno ben oltre anche i copiosi stipendi di cui già godevano.
La newsletter rappresenta dunque una panacea, un disarticolatore (vi piace come traduzione di ‘disruptor’?), e indiscutibilmente la nuova frontiera del giornalismo online? No, ovviamente; o almeno non del tutto. La transizione ha funzionato per le grandi firme che ho citato perché loro avevano già costruito una base solida altrove, nelle precedenti testate e sui loro canali social, e hanno dunque potuto trascinare quei lettori — e farli pagare! — con relativa scioltezza.
È qui che il destino di Substack (e di chi, come Ghost, offre servizi di distribuzione analoghi) si trova ad un bivio. Da una parte, la piattaforma si pone come uno strumento neutro: non interviene nel merito di ciò che viene pubblicato e inizia a fare soldi solo quando guadagnano i suoi scrittori (la tassa del 10% di cui sopra). Dall’altra, per adesso, non offre alcun modo di far trovare le newsletter a potenziali nuovi lettori al di fuori di una funzione di ricerca elementare e di una scarna leaderboard. Chi come me non può già vantare un seguito deve farsi promozione interamente da sé su canali esterni. Questo richiede tempo e denaro, risorse che pochi hanno in quantità.
Quale sarà quindi l’incentivo a rimanere su Substack? In che modo porterà a chi scrive nuovi occhi? Sarà cruciale comprendere come l’azienda deciderà di muoversi nel prossimo futuro. Finché una piazza è relativamente spoglia e le barriere d’ingresso sono basse, una buona idea può essere sufficiente per diventare virale e costruire qualcosa di significativo nel giro di poco (penso al clone di Tetris che oltre dieci anni fa venne pubblicato sull’App Store e fece guadagnare allo sviluppatore un milione di dollari — buona fortuna a provarci adesso). Ma è lo scenario iniziale, e il gioco funziona per pochi. Dietro l’angolo si profila una vera e propria invasione, e la competizione rischia di affogare le idee in un rumore opaco e indistinto.
Al momento, Substack ha 250.000 utenti abbonati alle proprie newsletter preferite, e le dieci penne più pagate godono di un incasso complessivo di oltre 10 milioni di dollari l’anno. Quando però gli utenti si moltiplicano e il numero di scrittori si estende a macchia d’olio, cosa succede? La leaderboard non funziona più, e probabilmente neanche la ricerca. La risposta più sensata sembrerebbe essere l’integrazione di un robusto meccanismo di trovabilità (discoverability) tramite un algoritmo di raccomandazione, che può premiare le newsletter più piccole e meno conosciute. Ma Substack non si è ancora sbilanciata sull’argomento, ed è questo il bivio a cui facevo cenno.
Poiché la compagnia non detiene nulla — né la lista degli iscritti né i post — potrebbe benissimo spuntare un’altra piattaforma che ripropone le stesse meccaniche ma abbassa la tariffa al 5% e/o offre modi innovativi per far iscrivere nuovi utenti. Perché un writer non dovrebbe saltarvi a bordo immediatamente? Di nuovo: quale sarà il valore aggiunto di Substack? Sono domande non cosmetiche, ma alla base dell’intero business model della newsletter, che indubbiamente continuerà ad evolversi fintanto i lettori apprezzeranno il format.
Intanto…
Forbes lancia la sua piattaforma
Forbes ha un’idea. In settimana, ha annunciato l’introduzione di una sua piattaforma per newsletter. Al momento è dedicata a 20-30 giornalisti, ingaggiati in gran parte dallo staff interno per far partire l’iniziativa, ma verrà poi estesa al suo network di collaboratori esterni (circa 3.000 persone) e possibilmente oltre.
Funziona così: chi aderisce al programma otterrà diversi benefici, tra cui uno stipendio minimo da redattore full-time, supporto legale, aiuti di carattere editoriale (come fact-checking e revisioni del testo) e una percentuale degli introiti generati dalle visualizzazioni. In più i ricavi ottenuti tramite gli abbonamenti, che però verranno divisi a metà fra il giornalista e Forbes.
La fetta del 50% è enorme, e l’unica eventuale giustificazione sarà nella forza promotrice della testata, che si occuperà anche del marketing e della distribuzione. Potrebbe essere una valida alternativa a Substack? Al momento è molto difficile fare una previsione, poiché la proposta è indirizzata specificamente a scrittori che hanno già un forte seguito.
L’idea del giornalista imprenditore di sé, però, è qui per restare — in un modo, nell’altro, o (presto) in un altro ancora.
I numeri di Netflix
In settimana c’è stata l’ultima earnings call di Netflix, da cui sono usciti fuori un po’ di numeri interessanti. Vediamoli:
Netflix conta ora oltre 200 milioni di iscritti (paganti). Erano 167 l’anno scorso, e meno di 100 neanche cinque anni fa. Il Covid ha contribuito molto, per ovvi motivi, ed è per questo che i dirigenti hanno messo in guardia gli investitori: non aspettatevi una simile crescita il prossimo anno.
Dei circa 37 milioni di nuovi abbonati, 15 vengono dall’Europa, che è il mercato che cresce di più (67 milioni in totale, un pelo sopra gli USA).
La capitalizzazione di mercato dell’azienda è di $220 miliardi. Nel 2011 era di $11.5 (mld).
Ed è solo 8 il numero di aziende che, nel mondo, ancora valgono di più: Apple, Microsoft, Amazon, Google, Facebook, Tesla, Nvidia (notate mica qualcosa?).
Negli show più ricercati su Google nel 2020, 9 su 10 erano del catalogo Netflix. Per quanto riguarda i film, il numero scende a 2(/10).
Due highlight particolari: Tiger King, primo in classifica, e The Queen’s Gambit, che è stato visto da 62 milioni di famiglie nei suoi primi 28 giorni, record assoluto relativo al periodo. (Netflix ha inoltre accennato al fatto che la serie ha contribuito ad un forte aumento delle vendite di scacchiere, ponendosi come forza culturale anche al di fuori dello schermo.)
Il numero più eloquente, però, è il 16: i miliardi che Netflix ha dovuto prendere in prestito nell’ultimo decennio, e che ora può pensare a restituire senza dover aumentare ulteriormente il debito. Dal 2021, infatti, la compagnia pianifica di iniziare a fare profitti in maniera continuativa.
$8.2 sono i miliardi che l’azienda californiana ha ora in cassa al netto di tutte le spese.
La scorsa settimana avevo scritto che Netflix non è una tech company, ma una entertainment company. Questo successo lo illustra bene: i numeri sono cresciuti non perché Netflix offre un video player migliore, un metodo più intuitivo per abbonarsi, l’HDR, il 4K o altro, bensì perché i suoi contenuti — in particolar modo le produzioni originali, a cui non si può accedere altrove — sono quelli per cui la gente è disposta a pagare. La strategia di spendere in modo ingente sul content è stata una scommessa a lungo termine, ma ha finalmente dato i suoi frutti.
E l’azienda non ha alcuna intenzione di fermarsi: come già sapete, per il 2021 è previsto un film a settimana, e anche le serie non mancheranno. Non manca però nemmeno la concorrenza: Disney+, Prime Video, HBO Max, Peacock, Hulu, Apple TV+ e chi più ne ha più ne metta. Tutte a combattere per il nostro portafoglio, ma anche (e soprattutto) per la nostra attenzione. Sarà interessante capire come questa lotta evolverà, ma sicuramente la compagnia di Reed Hastings è posizionata più che bene.
Un’ultima postilla. Anche per quanto riguarda i cataloghi di servizi come Netflix sta emergendo sempre più il problema della selezione. C’è molta più offerta di quanta una persona normale possa assorbire, e il risultato, spesso, è la paralisi. “Troppa roba! Non so cosa guardare/leggere/ascoltare” è un sentimento che, immagino, tutti abbiamo provato almeno una volta. La risposta di Netflix è… un tasto shuffle.
Il servizio conosce già bene le nostre preferenze, e in cima ai suoi algoritmi di suggerimento (rings a bell?) vuole proporre una soluzione rapida e d’impatto: “premi play, al resto penso io”. Funzionerà? Io sono scettico — lo zapping esiste per un motivo. Voi che ne pensate?
Parla il capo di Instagram
Il capoccia di Instagram Adam Mosseri ha fatto una lunga chiacchierata con Nilay Patel, editor-in-chief di The Verge. La conversazione è molto interessante e tocca vari punti, ma a me interessa riprenderne giusto alcuni.
Mosseri è uno dei pochi dirigenti che ha chiarito con nettezza la propria posizione sul ban di Trump la scorsa settimana. Sicuramente Instagram non si è trovata nell’occhio del ciclone, un po’ perché l’account del (ex!) Presidente era quasi inattivo, un po’ perché il provvedimento è stato preso in coda a Facebook, di cui Instagram è proprietà. Ciò non toglie che la scelta sia stata fatta, e che Mosseri fosse d’accordo, ma emerge con chiarezza come sia stata una decisione sofferta e scomoda. Mosseri, come tanti in posizioni simili alla sua, vorrebbe che ci fossero policy governative più precise in merito. A nessun dirigente tech piace fare il poliziotto: molto meglio avere dei vincoli esterni su cui scaricare le responsabilità. Bene! È la strada giusta — e non solo per il discorso Trump. Il fatto che un product manager trentenne in Silicon Valley possa avere un enorme potere decisionale sulle regole della libertà di espressione in, dico per dire, Myanmar (o Italia!) è preoccupante. Allo stesso tempo, dicevamo, Trump era un’eccezione, e come tale si è dovuto trattarla.
Secondo dato interessante: ad Instagram lavora giusto “qualche migliaio di persone”. Facebook, nel solo team di moderazione (umani che si occupano di revisionare i contenuti segnalati), conta 30.000 dipendenti. Questo cosa ci dice? Che connettere tutta l’umanità su un social online vuol dire portarsi dietro anche il peggio, e il sistema “tappabuchi” può reggere solo fino a un certo punto. Lo ripeto: c’è bisogno di regolamentazione (chiara!), ma anche di accettare la realtà. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, e ogni decisione porterà inevitabilmente a nuovi compromessi e conseguenze inaspettate.
L’ultimo punto riguarda più il prodotto, e i Reels nello specifico: ad Instagram non sono contenti. Sanno bene che fra le mani hanno fondamentalmente un clone di TikTok più acerbo (se non proprio uno strumento che gli utenti usano espressamente per ripostare i contenuti presi da TikTok), ed è loro intenzione lavorarci duramente, rivolgendosi soprattutto a giovani e creativi. La strategia, dice Mosseri, sarà una di consolidazione e snellimento, ad esempio chiarendo maggiormente la distinzione fra Storie, Reels, IGTV e video nel feed principale. Io sono il primo a credere che Instagram stia diventando troppo grosso e caotico, e mi auguro fortemente che questa semplificazione aiuti nel restituire un focus più chiaro alla piattaforma.
L’intervista si può ascoltare sul podcast Decoder (Spotify) o leggere, in versione leggermente editata, su theverge.com.
Cascata di mele
C’è un fenomeno di nome Mark Gurman che si è fatto un nome nel giornalismo tech per essere la più grande fonte di scoop sul mondo Apple. Prima del suo passaggio a Bloomberg ho avuto il piacere di lavorarci assieme per qualche tempo, e posso confermare che le sue tasche sono costantemente straripanti di informazioni esclusive su una delle compagnie notoriamente più riservate al mondo. Nell’ultima settimana, però, quelle tasche le ha vuotate, con un bel mucchio di informazioni interessanti sui prodotti in arrivo.
Ci sono due nuovi MacBook Pro, 14” e 16”, che dovrebbero avere un’estetica più squadrata (simile agli ultimi iPhone e iPad), eliminare la TouchBar (alleluia) e riportare il MagSafe come connettore per la ricarica, senza sacrificare le porte USB-C. Il computer all-in-one, l’iMac, dovrebbe essere finalmente svecchiato, e Apple starebbe anche pianificando l’introduzione di un nuovo Mac Pro più abbordabile (con tanto di display esterno, simile al monitor XDR) — il tutto, naturalmente, messo in moto dai nuovi processori “M” fatti in casa. iPhone 13, il modello 2021, dovrebbe essere molto simile al 12, ma reintrodurrà il Touch ID come sistema aggiuntivo di autenticazione biometrica, stavolta posizionato dentro al display (c’è anche una versione con schermo pieghevole che serpeggia dietro le quinte, ma ne parleremo meglio un’altra volta). L’ultimo report parla invece di un visore per la realtà virtuale (VR), che potrebbe arrivare sul mercato già nel 2022.
Qualche considerazione: Apple sta potenziando molto il ramo dei servizi, ma rimane fortemente legata al prodotto come braccio trainante del suo business. La compagnia crede ancora nel personal computing, e vede — secondo me saggiamente — il mondo di domani più simile a quello di oggi che a quello di dopodomani (da qui il mio scetticismo verso la Apple Car). Secondo, la partenza del leggendario designer Jony Ive deve aver chiaramente slegato un po’ di mani, ora libere tanto di lavorare a feature del tutto nuove quanto di ripristinare quelle vecchie (e, implicitamente, ammettere degli errori). Terzo, nello specifico sul VR, sono molto curioso di vedere quale sarà la chiave di interpretazione. Nell’ottica di un dispositivo di preparazione ai tanto rumoreggiati occhiali in realtà aumentata (AR) può avere senso, ma risulterebbe molto costoso ed estremamente di nicchia. Perché lanciarlo come prodotto a sé stante? È una mossa molto poco Apple. Inoltre, la VR si è per ora dimostrata una tecnologia piuttosto limitata nel suo raggio, e proprio in ambienti lontani dall’azienda: il gaming e le applicazioni industriali. Dove sta andando a parare il gigante di Cupertino, esattamente?
Futuro Lesto:
La GDPR (surprise surprise) funziona: in Europa, dall’introduzione della legge nel 2018, le multe legate alla violazione della privacy sono arrivate a un giro di 272 milioni di euro, di cui 159 nel solo 2020. La più grande se l’è beccata Google dalla Francia (€50m), ma nel complesso è l’Italia a guidare la classifica, con contravvenzioni per quasi 70 milioni di euro.
Il Covid e la micromobilità cambiano le città. In Italia, il Bonus Mobilità ha contribuito in maniera sostanziosa: le vendite di biciclette nello scorso maggio sono cresciute del 60% rispetto all’anno precedente, e a settembre l’aumento registrato dei viaggi su due ruote è stato del 27,5% sul 2019. Il dossier “Covid Lanes” di Legambiente dice che in 12 mesi sono stati costruiti 193km di strade ciclabili (Milano, città più virtuosa, ne conta da sola 35). Si tratta di un record, ma non di un traguardo, che stando ai vari PUMS (Piani Urbani di Mobilità Sostenibile) è molto più ambizioso: 2.626km di nuove piste nello Stivale in cinque anni, che andranno a raddoppiare i 2.341km già esistenti.
Gli Stati Uniti bannano Xiaomi. Prima di passare la palla, Trump si è tenuto occupato negli ultimi giorni della presidenza. È il replay di quanto visto con Huawei: compagnie cinesi che iniziano ad avere una certa influenza in Occidente (un eufemismo: nel mercato smartphone Xiaomi è dietro solo Huawei e Samsung nel mondo) e su cui si fa cadere arbitrariamente un martello, bloccando ingranaggi importanti dell’import/export. Il problema è che non c’è una logica: la scusa ufficiale è che Xiaomi sarebbe sotto il controllo del governo cinese, e che dunque vendere componentistica con IP americane è troppo rischioso. Ma ciò è vero per tutte le aziende cinesi, non solo Xiaomi, e pensare ad un blocco generale sarebbe una follia. Vedremo come si muoverà Biden.
Oltre a chiudere un occhio sulla moderazione, Parler teneva anche chiuso l’altro, quello della sicurezza. Prima della sospensione del servizio, alcuni utenti sono riusciti a raccogliere montagne di dati generati durante l’assalto a Capitol Hill: messaggi, foto, video, etc. L’FBI li sta utilizzando come prove per gli arresti, ma ProPublica ha fatto un lavoro eccezionale per mettere quanto più materiale possibile a disposizione di tutti. Con una timeline interattiva che ripercorre gli eventi ripresi da diversi angoli, è possibile rivivere alcuni momenti salienti di quella triste giornata. Perché, si spera, una cosa del genere non accada più.
Uno dei detti più famosi nel tech è quello che riguarda l’invisibilità: quando la tecnologia funziona, è un po’ come se scomparisse. Un esempio su tutti? Il Portable Document Format, altresì noto come PDF. Va avanti in silenzio da trent’anni, ed è tutt’ora l’unico tentativo riuscito di digitalizzare la carta in maniera affidabile, efficace e universalmente compatibile. Nell’ultimo anno è cresciuto ancora, del 17%, sfondando la barriera dei 300 miliardi (!) — in totale, si stima, ce ne sono 2,5 trilioni. Provare a “superare” il PDF è un po’ come pensare di rimpiazzare gli spazzolini o le penne a sfera. Impossibile? Forse.
Il Covid è una piaga, non solo per l’aspetto pandemico ma anche per tutti i risvolti che ha nello scombussolare la vita quotidiana. La tecnologia non può rimpiazzare del tutto le esperienze dal vivo, ma può essere un buon sostituto. A volte, per certi aspetti, anche meglio. La settimana scorsa era la Cappella Sistina; oggi vi propongo la Ragazza con l’orecchino di perla di Jan Vermeer. Non costa migliaia di dollari e non vi costringe ad andare in Olanda, poiché si tratta di una “banale” fotografia digitale. Con una particolarità: grazie ai suoi 10 miliardi di pixel (93.205x108.565, 10.1 gigapixel) è un’immagine talmente dettagliata che vi permette di cogliere sfumature che fatichereste a notare anche col dipinto sotto al naso. L’esperienza è surreale: sembra quasi di usare Google Earth. Con tanto di modalità 3D, che rivela come la superficie — per via dei numerosi strati di colore e di alcuni restauri — sia tutto fuorché piatta. Si ringraziano Emilien Leonhardt, Vincent Sabatier, e le 9100 foto scattate al microscopio per aver dato nuova vita al capolavoro del Mauritshuis.
In un’altra vita vorrei essere anch’io un fotografo, ma un wildlife photographer. Non tanto per gli animali che potrei riprendere, ma per quelli da cui potrei essere interrotto…
Bene, ora siete qualche passo avanti nel futuro: non vi resta che rallentare. Noi ci vediamo venerdì!