Prima di dar vita a Futuro Lento, un timore serpeggiava nella mia testa. Il ciclo di notizie è un’immensa e ininterrotta cascata, ma nel propormi di fare da filtro come principio cardine di questo lavoro ero spaventato che gli argomenti realmente interessanti potessero scarseggiare.
Siamo arrivati soltanto al terzo numero, e non ho certo una risposta definitiva. Ma il modo di approcciarmi alla creazione della newsletter sembra aver aumentato notevolmente l’offerta di contenuti intriganti. A tal punto che mi trovo inevitabilmente a doverne scartare alcuni, perché sarebbe impossibile trattare tutto (per fortuna, lo sapete, nessuno ci corre dietro).
Spero che continui così, e che l’interesse sia condiviso. Ma la verità è che un angolo tech c’è sempre. Come illustravo nel post iniziale, la tecnologia è ovunque: nella cronaca, nel business, nei media, nella geopolitica. Perfino, vedremo oggi, nella filosofia.
Non immaginavo che la prima mail avrebbe affrontato il tema della sospensione del Presidente degli Stati Uniti dai social network, ma mai mi sarei sognato che una storia ancora più folle sarebbe emersa solo due settimane dopo.
È però una storia densa di significato, che mi ha fatto pensare molto. Mi scuso con voi in partenza per la natura più astratta di alcuni passaggi, ma mi auguro che faccia riflettere anche voi — Futuro Lento è nato anche per questo.
E poi, niente paura, c’è tutto il resto!
Una scommessa su GameStop e i danni di una Storia senza senso
Tutti hanno sentito parlare almeno una volta di Francis Fukuyama, l’autore del celebre saggio La fine della Storia e l’ultimo uomo. Un testo influente e controverso, tutt’ora al centro di rumorosi dibattiti. Fukuyama non intendeva dire che il letterale susseguirsi degli eventi sarebbe giunto al capolinea, ovviamente, ma rifletteva sul fatto che, sbarcata nel nuovo secolo, l’umanità sarebbe giunta ad uno snodo epocale in cui il processo di evoluzione politica, economica e sociale avrebbe tagliato l’ultimo traguardo. I bisogni materiali dell’uomo avrebbero trovato risposta, i desideri uno sbocco verso la realtà, la civiltà stessa un livello “definitivo” di prosperità. La democrazia liberale, secondo il filosofo americano, avrebbe essenzialmente “vinto”.
Era un punto di vista comprensibile nel 1992 (anno di pubblicazione del libro), fuori dalla Guerra Fredda e dopo l’implosione dell’URSS e la caduta del Muro di Berlino. I trent’anni che ci separano da allora, tuttavia, ne hanno comprensibilmente messo in dubbio la validità. Non è difficile trovare commenti apertamente derisori all’opera di Fukuyama, ed è ugualmente semplice intavolare un discorso più generale e finire presto a parlare di disuguaglianze.
Eppure, a leggere più attentamente L’ultimo uomo (un’appendice del volume originale) emerge una visione più cinica e acuta del successivo orizzonte. La tesi che una democrazia compiuta rappresenti il culmine dell’evoluzione della società (la forma di governo peggiore possibile, ad eccezione di tutte le altre) rimane. Dall’altro lato, alcuni frammenti non sono solo in contrasto con una generica prospettiva di “fine”, ma anche sorprendentemente prescienti nell’immaginare cosa sarebbe accaduto dopo la comparsa dell’ultimo uomo.
Qui un estratto (grassetto mio):
E se il mondo fosse diventato a tal punto “pieno”, per così dire, di democrazie liberali che non esisterebbero più né tirannie né oppressioni degne di questo nome contro cui combattere? L’esperienza ci dice che se gli uomini non possono combattere per una giusta causa perché questa ha già vinto nella generazione precedente, prenderanno le armi contro la giusta causa. Combatteranno cioè per amore del combattimento, per fuggire la noia, non riuscendo ad immaginarsi una vita senza lotta. E se la maggior parte del mondo in cui vivono fosse caratterizzata da democrazie liberali pacifiche e prosperose, essi combatterebbero contro quella pace e quella prosperità, contro la democrazia.
Si può intuire come sia facile dilagare ben oltre lo scopo di questo pezzo. (Se volete andare più a fondo, Aris Roussinos ha scritto un articolo affascinante su Unherd.)
Il concetto alla base, però, traspira bene: l’idea che arrivati ad un punto “finale” (e, in quanto tale, “perfetto”) si possa effettivamente bloccare del tutto la ruota del tempo non regge. Laddove questo dovesse accadere, infatti, l’ultimo uomo di Fukuyama si ritroverebbe insoddisfatto, indipendentemente dal livello di benessere garantito dal soddisfacimento di tutti i beni primari (e anche molto di più). Sarebbe dunque egli stesso a spingerla nuovamente, trainato dal desiderio costante di sfida, ricerca della superiorità (megalotimìa), o addirittura struggimento. Il motore della spinta? La noia (intesa in senso lato).
La Storia mi serve queste parole su un piatto d’argento: basti ripensare, ancora una volta, agli impulsi violenti e gli echi da guerra civile che gli attacchi al Campidoglio statunitense hanno messo in mostra qualche settimana fa. Degenerazioni pericolosissime e reali, fomentate — forse non a caso — da una radicalizzazione che per tramite dei social media ha incanalato tanto brutalmente proprio la noia (e altri sottoprodotti del mondo liberale, come l’atomizzazione dell’individuo, la conseguente ricerca di identità in un gruppo, l’individuazione di un nemico comune nell’establishment).
Ma forse non c’è bisogno di spingersi a tanto. Ci sono numerosi microcosmi in cui le medesime dinamiche si replicano.
Si pensi ad uno dei pilastri delle economie moderne: il mercato finanziario. Soldi in larga parte creati dal nulla, che non esistono se non in alcuni portafogli virtuali, distaccati dal meno rischioso benessere del mondo (e dell’economia) reale. E, ciononostante, in grado di influenzare la realtà in modi apparentemente assurdi e inimmaginabili, ma con effetti molto concreti.
Ed è qui che arriviamo a GameStop.
GameStop è una compagnia su cui, nel secondo decennio del ventunesimo secolo, pochi scommetterebbero. Non solo perché è spesso invisa alla categoria di consumatori a cui si rivolge — i videogiocatori — ma anche perché il suo intero modello di business si basa sul vendere copie fisiche di giochi in dei punti vendita. Anche nel gaming la transizione verso un mondo perlopiù digitale sta avvenendo rapidamente, con la diffusione dei contenuti acquistati e scaricati online e la progressiva scomparsa delle scatole che chiamiamo console. Prodotti come lo Stadia di Google permettono di giocare ovunque, sul computer o col telefono, accedendo ai vari titoli dal cloud; e anche la vecchia guardia (Sony, Microsoft, Nintendo) si sta armando a tambur battente per fare dello streaming una priorità.
Aggiungiamoci la pandemia, l’esistenza di concorrenti come Amazon (la cui logistica infinitamente superiore si evidenzia anche nella spedizione a casa delle copie fisiche) e capirete che GameStop non naviga esattamente in acque tranquille. Ciò si è riflesso nella sua quotazione in borsa, che dal 2013 in poi ha cominciato a tramontare in modo lento ma costante.
Su discese di questo tipo alcuni investitori lucrano enormemente. Con un sistema chiamato short selling, i trader prendono in prestito delle azioni, le rivendono immediatamente, e aspettano che il prezzo scenda per poi riacquistarle e restituirle al proprietario originale, guadagnando sulla differenza. Il rischio è notevole, ma lo è anche il potenziale utile. Secondo recenti stime, visti i prospetti di GameStop, una percentuale piuttosto ingente delle azioni (80%+) era stata assoggettata a questo meccanismo in anni recenti.
Nel primo mese del nuovo anno, però, la combinazione di due eventi chiave ha invertito la rotta.
La prima è stata l’ingresso di Ryan Cohen nella board della compagnia. Cohen è un volto noto a Wall Street, e il suo recente successo con Chewy (che si occupa di spedire a casa il cibo per gli animali) gli ha permesso di entrare nell’azienda con notevole influenza. La sua tesi, avvalorata dalla sostanziosa riserva di cassa su cui GameStop poggia, è che la struttura fondamentale della compagnia sia in realtà molto solida, e che un forte riposizionamento delle priorità sulla distribuzione e un riallestimento degli store in chiave “esperienziale” potrebbero renderla nuovamente competitiva, anche contro giganti come Amazon. Le mosse di Cohen hanno fatto drizzare le orecchie ad alcuni investitori, ma una grossa fetta di Wall Street ha continuato a puntare sul ribasso del prezzo azionario, complici anche i numerosi licenziamenti e la chiusura di oltre 400 negozi a cui GameStop ha dovuto fare fronte nell’anno del Covid.
Il secondo punto nodale, tuttavia, è quello più avvincente. “Wall Street Bets” (WSB) è una community di Reddit in cui investitori occasionali e appassionati di finanza camminano costantemente sul filo del surreale. Per un verso, WSB è un luogo dove regna il caos: la gente si riunisce in modo distintamente goliardico per commentare, scherzare e creare meme (gli utenti si autodefiniscono “degenerati”). Per l’altro, forte di ben 6 milioni di iscritti (e un numero incalcolabile di persone che lo seguono senza prendervi parte), è anche un crocevia relativamente importante quando si considera la sua forza nell’aggregato.
Dire che ai membri di WSB gli short seller stiano antipatici è un eufemismo. E quindi, hanno ben pensato, se le azioni di GameStop sono sufficientemente poche e nel complesso abbordabili, non sarebbe divertente se iniziassimo a comprarle tutti in massa (si tratta propriamente di opzioni call, ma non entriamo nello specifico)? Una situazione win-win: l’acquisto dei titoli in blocco (col prezzo rasoterra) può farne salire il valore, portando magari qualche profitto a chi decide di partecipare, ma soprattutto questa inversione di marcia scombinerebbe i piani degli short seller — e tanti saluti al mercato che “si regola da solo!”. Accade infatti che, nel momento in cui le azioni di una compagnia iniziano a risalire all’improvviso, gli investitori short temono che la loro operazione possa compromettersi, e iniziano a riacquistare preventivamente gli stock da restituire per mettersi al riparo. Mossa che, naturalmente, fa aumentare il prezzo dei titoli ancora di più: un circolo vizioso teoricamente infinito che può tradursi in una brusca impennata, nota in gergo come “short squeeze”.
Fra le tante assurdità del mondo finanziario c’è la natura dei titoli, per cui il loro valore non è solo un riflesso dell’effettiva solidità di un’azienda, ma un prezzo che fluttua in base a come stanno scambiando le azioni gli altri. Astrologia per adulti, se vogliamo. Wall Street Bets ha costruito dal nulla il proprio carro da vincitore prima ancora di giocare la partita, e ha spinto milioni di astanti — anche gente senza alcuna contezza di quel mondo — a saltarci sopra. Ad aiutarli sono app come Robinhood (un nome una garanzia), che permettono di gestire vendite e acquisti con semplicità disarmante e costi di ingresso risibili.
Nel corso delle settimane più volatili della sua storia, $GME (GameStop) è passato dal prezzo medio (in stagnazione da anni) di $5 ad azione della metà del 2020 a circa $20, per poi momentaneamente raggiungere un picco astronomico di $470 qualche giorno fa — e la montagna russa non accenna ad arrestarsi. Il volume delle transazioni ha brevemente toccato i 20 miliardi di dollari in una sola giornata, superando i vari Tesla, Apple, Microsoft, Amazon. Un utente di WSB, che circa due anni fa aveva investito un capitale di $55.000, ha pubblicato un aggiornamento in cui il suo portafoglio vantava $48M (sì, quarantotto milioni di dollari) di surplus. È il contributo “popolare” più significativo, ma lungi dall’essere l’unico. Intanto, Cohen e gli altri due shareholder più grossi sono virtualmente diventati miliardari in poche ore.
Ma la corsa è tutt’altro che finita, perché la tattica sta funzionando. Da una parte, alcuni fondi di investimento a Wall Street stanno rischiando un’emorragia da miliardi di dollari — su tutti la Citron Research dello short seller Andrew Left, nemico numero uno di WSB, e l’hedge fund Melvin Capital. Dall’altra, l’hype generato dalla community non solo ha convinto migliaia di individui ad investire in GameStop, contribuendo allo squeeze, ma soprattutto a mantenere le azioni senza incassare, nell’aspettativa che il prezzo, pur con fluttuazioni da elettrocardiogramma, salirà ancora.
Come se non bastasse, titoli di altre aziende quasi decotte e con caratteristiche analoghe (BlackBerry, Nokia, AMC) sono stati presi d’assalto, e nella giornata di giovedì è scoppiato un ulteriore putiferio perché Robinhood e altre app di compravendita hanno iniziato a proibire gli acquisti delle azioni più calde, che riprenderanno solo oggi. Qualcuno sospetta che gli hedge fund ci abbiano messo lo zampino, altri pensano che sia una semplice questione di incapacità di queste piattaforme a coprire tali movimenti di denaro tutti assieme. Nel mentre sono partite le class action con l’accusa di manipolazione del mercato, e il Congresso ha annunciato che ci saranno delle udienze formali su tutto l’episodio. Sì, sembra un circo.
Immaginate il caos nel momento in cui è arrivato questo endorsement informale di Elon Musk.
È una storia incredibile, senza precedenti né alcun senso logico. Il fatto stesso che una cosa del genere sia potuta avvenire è indicativa: è una rappresentazione plastica proprio dell’assenza di logica che governa arbitrariamente pezzi enormi della macchina sociale. Ciò che ne consegue, in maniera del tutto endogena, è la volontà collettiva di attaccare il nuovo “nemico”: qui l’elite di Wall Street, a Washington le istituzioni democratiche stesse (il paragone diretto regge fino a un certo punto, e non è mia intenzione difendere gli speculatori). Diceva Keynes che “Il mercato può rimanere irrazionale più a lungo di quanto tu possa rimanere solvente”: oggi i tycoon della finanza lo stanno imparando a proprie spese. Ma andare ad indagare le cause di questa storia vuol dire uscirne fuori rendendosi conto di come anche qui il disincanto abbia giocato un ruolo fondamentale nello spalancare le porte all’assurdo.
Quando la chiusura in casa e la vicinanza agli schermi amplificano l’alienazione da un mondo ritenuto ingiusto, un movimento collettivo con gli amici incontrati su Reddit diventa una scusa per socializzare, dare un senso alle proprie giornate — o, per dirla con Fukuyama, fuggire la noia. E convogliare la rabbia. È un gioco, ed è anche divertente: ognuno mette quello che può e lo facciamo tutti insieme, verso l’infinito e oltre. E per di più andiamo anche a bruciare i soldi dei lorsignori di Wall Street, a suon di meme e al grido di ‘YOLO’ (You Only Live Once, vivi una volta sola). Perché no?
È un sistema disfunzionale e intrinsecamente nichilista che il modello liberale è geneticamente ingegnerizzato a produrre e alimentare. Una bolla che, come tutte le altre, scoppierà. Violentemente. Non sarà il Campidoglio, e magari non ci saranno morti. Ma le condizioni perché tutto questo si ripeta, nella borsa e fuori, esistono. La ruota della Storia sta girando, con forza. E lo spettro dell’ultimo uomo aleggia più minaccioso che mai.
Google v. Australia: chi paga per le news?
Australia, paese bizzarro. Forse camminare tutto il giorno a testa in giù fa male? Non lo so, ma — scherzi a parte — l’ultima proposta di legge in merito alla gestione del rapporto fra i news media business (i giornali) e due piattaforme in particolare, Google e Facebook, è talmente insensata da far sembrare la querelle su GameStop un’oasi di normalità.
Un passo indietro. Storicamente, i grandi giornali hanno fatto leva su due fattori per stabilire ed accrescere la loro influenza: uno stretto controllo geografico della tiratura e la separazione del contenuto editoriale da quello legato alla pubblicità. È proprio la pubblicità l’elemento determinante in questione.
Prima di internet, l’advertisement su scala doveva passare necessariamente dai giornali (e dalla TV). Poniamo che io sia stato il proprietario di una ditta di biciclette verso la fine degli anni ‘70 e abbia voluto vendere il mio prodotto a Milano. Cosa avrei dovuto fare? Sarei andato dal Corriere della Sera, che operando nell’area ne gestiva la distribuzione, e avrei pagato per comprare uno spazio pubblicitario. Il giornale godeva di un’influenza ineguagliata nella zona, e ne controllava la (relativa) scarsità: chi voleva sponsorizzarsi doveva passare da lì. Nel frattempo, i giornalisti del Corriere non dovevano preoccuparsi del lato pubblicitario se non per motivi strettamente legati al conflitto di interesse (fino a un certo punto, ma è un’altra storia), e lavoravano per attrarre nuovi lettori con una proposta editoriale valida e la nobile missione del perseguimento della verità. Un vanto, ma anche lusso enorme.
Poi è arrivato internet. Il vecchio sistema, schiacciato sia dalla parte della domanda sia da quella dell’offerta, è collassato. Nel giro di pochi anni, è diventato possibile per chiunque aprire un proprio sito o un blog (o una newsletter!) senza spendere nulla, ma soprattutto i lettori hanno iniziato a convergere da tutto il pianeta. Fantastico! Certo: per tutti gli altri. Questo cambio di dinamica ha colto impreparati i giornali, il cui passaggio ad un modello digital-first è ancora tutto in discussione. In un mondo definito dalla scarsità, chi ha il controllo del traffico (gli occhi dei lettori) può dettare un prezzo d’ingresso (agli inserzionisti), e campare anche parecchio bene nel mezzo. Il web rovescia questo scenario, e lo ridefinisce secondo il canone diametralmente opposto della sovrabbondanza: infiniti nuovi scrittori, infiniti nuovi lettori.
Chi ha in mano il traffico diventa chi è in grado di dare un senso a questa complessità, indicizzare e sistemare il flusso di informazioni. Ossia Google e, in parte, Facebook. Gli inserzionisti, a cui poco interessa del ruolo sociale del giornalismo, hanno colto la palla al balzo. Non solo: i sofisticati metodi di profilazione consentono un targeting molto più preciso delle pubblicità, ottimizzando la spesa e assicurandosi che i soldi vengano rediretti verso l’audience giusta. Questo presunto furto, ai media, non è mai andato giù. L’ingiusta pretesa di dover accedere a quei soldi per diritto divino ha del marcio fino in fondo, se non altro perché il declino delle entrate pubblicitarie ai giornali era già in avvio da tempo quando gli aggregatori hanno iniziato a vedere un soldo (bisogna andare indietro a Craigslist e lo smantellamento degli annunci classificati per quello).
Veniamo all’Australia.
Il disegno di legge, già avanzato come “code of conduct” lo scorso anno, imporrebbe alle piattaforme digitali di pagare i giornali per la possibilità che questi danno di comparire ed essere linkati nel motore di ricerca (Google) o nel News Feed (Facebook). Il prezzo sarebbe stabilito in una trattativa fra le parti o, se questa dovesse fallire, da un arbitro terzo. In soldoni: “Vuoi mettere un link che porta gli utenti dalla tua piattaforma al mio sito? Pagami!”. È come se una persona, per fare volantinaggio per un ristorante, dovesse anche ricompensarlo per la gentile offerta. Ah, e per essere chiari, qui parliamo solo delle testate dei grandi gruppi editoriali (quelli che fanno capo a Rupert Murdoch, per intenderci), non certo i quotidiani locali o i blog indipendenti, che non riceverebbero un centesimo.
Capite la totale assurdità? In quest’ottica sballata, non è Google a fare un favore al giornale mettendo il suo articolo in bella mostra nei risultati della ricerca (gratis!), ma il contrario. Ciò, tanto per cominciare, è smentito dal dato economico: sono le pubblicazioni a beneficiare enormemente della loro presenza (volontaria!) su Google e Facebook, per via dell’enorme traffico in entrata che queste garantiscono. Per i due colossi, invece, la presenza di notizie è quasi del tutto marginale (Google non mette neanche pubblicità vicino alle news).
L’ACCC (l’organismo di governo che si è occupato della stesura) avanza poi tutta una serie di richieste illogiche a favore dei publisher, che minano le fondamenta di una rete aperta, democratica e uguale per tutti. Tra queste la possibilità di moderare i commenti degli utenti (immaginate, traslato in Italia, di pubblicare un post su Facebook con un link ad un articolo del Sole 24 Ore e sapere che il giornale può unilateralmente cancellarvelo se lo ritiene appropriato) e una richiesta di accesso anticipato ed esclusivo agli algoritmi delle piattaforme in caso di cambi. E ancora, altre informazioni che darebbero a quei giornali un ingiusto vantaggio competitivo nei confronti di chiunque altro pubblica sul web.
Il risultato, dopo mesi di tentate contrattazioni, è che Google e Facebook hanno apertamente detto che a tali condizioni non potranno fare altro che ritirare il prodotto dal mercato australiano. Nello specifico, Facebook sarà costretta a proibire agli utenti di postare qualsiasi contenuto legato alle news, mentre Google (per cui il lavoro di smistamento sarebbe molto più complesso) dovrà smettere di offrire il motore di ricerca per intero. Sembrerebbe una minaccia, e così è stata bollata; ma chi punta il dito dopo aver detto “sovverti completamente il modo in cui funziona internet da sempre o qui non puoi lavorare” non ha esattamente una scusante di ferro.
Quel che è peggio, secondo me, è che l’idea alla base non è solo giusta, ma sacrosanta. Che Google e Facebook vantino un potere smisurato nella pubblicità online è un dato di fatto, ed è fondamentale che si faccia qualcosa in merito — leggi: serve almeno una terza gamba nell’advertising. E questo è un problema di antitrust, oltre che di privacy e accesso ai dati. Di più: da giornalista e da cittadino credo enormemente nella funzione della stampa come cane da guardia del potere (le compagnie tech su tutte!), e dunque nella sua pubblica utilità. Ecco perché trovo questa proposta di legge uno scempio: è un tentativo maldestro di incorniciare la vicenda in un generico “fronteggiare lo sbilanciamento e l’ingiusta forza contrattuale esercitata dalle piattaforme digitali sui media”, inventando di sana pianta un valore che non esiste (quello offerto dai giornali alle piattaforme) e che non si può dunque ridistribuire. Sarebbe invece più auspicabile essere onesti e chiamarla per quello che de facto è, e de jure dovrebbe essere: una tassa.
La regolamentazione, che è spesso la via maestra, serve perché in molti casi permette di intervenire sui singoli ingranaggi di queste macchine complesse, operando con lo scalpello e non con l’accetta. Ma qui si sfocia ancora una volta nell'assurdo, con l'applicazione del tutto arbitraria di una tassa ad hoc mascherata a due aziende che, sotto questa lente, hanno la sostanziale colpa di essere più profittevoli delle altre. Perché queste “piattaforme digitali” non includono, per dire, Twitter, Snapchat, Yahoo, o le email? Risposta: sono pesci piccoli a cui l’arbitro non avrebbe molti soldi da spillare.
Cedere vorrebbe dire creare un precedente, ed è questo ciò che più spaventa le due aziende: una cosa del genere potrebbe innescare un effetto domino altrove, e per tutti i contenuti indicizzati. Perché solo i giornali? Altri siti, da tutto il mondo, si sentirebbero a ragione svantaggiati, ed inizierebbero ad avanzare pretese di essere compensati — pensate a un gruppo no-vax o qualche bel network fascistoide che inizia a reclamare denaro col supporto della legge. In tutto questo, si risolverà almeno il presunto problema monopolistico? Tutt’altro: senza Google gli australiani si sposterebbero su Bing, Ecosia o DuckDuckGo (alternative che, nota a margine, esistono già) e la legge verrebbe prima o poi applicata anche a loro. È un cortocircuito, chiaramente insostenibile, e pur di non correre il rischio è necessario anche prendere decisioni drastiche come l’uscita da un mercato non secondario.
Qual è dunque la soluzione? Dare una risposta è, logicamente, molto complicato. Quel che è certo è che il modello va ripensato nel profondo. Una tassa che reindirizza il denaro in sussidi pubblici è una strada controversa (il diritto divino di cui sopra per altri mezzi, stavolta giusti: il servizio pubblico), ma può valere la pena tentare. A mio giudizio, però, sono gli abbonamenti a rappresentare l’alternativa più convincente. Il “come spendi mangi” si applica anche all’informazione, e i lettori stanno dimostrando di essere disposti a pagare laddove percepiscono un valore aggiunto effettivo. Il buon giornalismo (il reporting, le analisi, le opinioni) è un business come tutti gli altri, costa, ed è opportuno finanziarlo in modo diretto. È un modo di tagliare (o quantomeno ridurre drasticamente) la pubblicità, e rimettere al centro dell’esperienza la qualità di ciò che viene scritto. Può funzionare: sta già funzionando. Manteniamolo.
Futuro Lesto:
Twitter si aggiunge alla newsletter-mania con l’acquisto di Revue. Il modello della piattaforma olandese somiglia molto più a Substack che a Forbes, in quanto aperto a tutti. E contro il primo ha due assi nella manica, poiché si dedica proprio ai problemi che avevo evidenziato: la percentuale che Twitter deterrà per ogni nuovo iscritto (5%, la metà di Substack) e la user acquisition. Per far scoprire una newsletter e attrarre nuovi utenti non c’è forse compagnia al mondo meglio equipaggiata di Twitter, il canale più vivace per l’informazione. Integrare le due piattaforme, se fatto bene, potrebbe essere un modo straordinariamente efficace di trasformare Revue in un servizio eccezionale. Il problema più grande, qui, è Twitter la compagnia: le acquisizioni di Vine e Periscope sono andate male, e l’azienda ha dimostrato poca capacità di innovare il prodotto in modo sostanzioso. Substack invece corre, ma dovrà rispondere. Intanto, viva la competizione.
L’altro nome che sta facendo il giro di internet è Clubhouse, che ha appena tirato su un round da $100 milioni guidato da Andrew Chen del fondo di venture capital Andreessen Horowitz (uomo chiave anche per gli inizi di Substack, tra l’altro). L’idea di Clubhouse è innovativa: un social network basato sull’audio. L’app permette con estrema semplicità di creare ex novo (o entrare in) delle stanze (pubbliche o private) in cui qualcuno parla e molti ascoltano, in diretta, di qualsiasi argomento. Il servizio è ancora in una beta chiusa al pubblico, ma i due milioni di utenti che già lo popolano settimanalmente sembrano entusiasti: le discussioni appaiono variegate, coinvolgenti e stimolanti grazie a speaker di peso, ce n’è sempre una a cui prendere parte (anche letteralmente: si può alzare una mano virtuale e chiedere la parola ai moderatori) ed è molto semplice invitare gli amici. In più, crucialmente, Clubhouse non compete per l’attenzione degli occhi sullo schermo. Il problema più grande, al solito, sarà la moderazione, ma c’è molto ottimismo dentro e fuori la Silicon Valley. La startup si è anche espressamente impegnata nel creare strumenti a supporto dei creator, monetizzazione inclusa, quindi se fra qualche anno dovessero spuntare come i funghi i “Clubhouse influencer” non stupitevi.
Parlando della Apple Car nel primo numero, scrivevo che “nel momento in cui la componente chiave è un computer e non il motore, i concorrenti non sono più BMW, Audi o Porsche, ma Tesla e Google”. In settimana ha fatto il giro un pezzo del Wall Street Journal che racconta il fallimento di Wolkswagen nel pomposo lancio della sua ID.3 elettrica, su cui la casa tedesca ha speso miliardi di dollari con l’espresso obiettivo di attaccare Tesla. Problemi con le portiere o la trasmissione? Niente affatto: solo una valanga di bug del software, che pure prometteva faville. È importante sottolinearlo: il passaggio all’elettrico è un elemento quasi secondario della nuova era delle auto. Si sta ripensando per la prima volta che cos’è una macchina, e questo comporta alcuni cambi di paradigma così radicali che anche case storiche come Wolkswagen non sono attrezzate ad affrontare. Il know-how del software non è una commodity, e dunque non è un problema che si può risolvere con un semplice investimento. È il nuovo pilastro dell’automotive, e per giunta quello più importante. Serve un profondo cambio di mentalità, e il conservatorismo della vecchia guardia tedesca (europea?) è il più grosso ostacolo. Chi ha più credibilità di WV a criticare Tesla è invece Google, ma per ben altri motivi.
È da lungo tempo che, un po’ in solitaria, combatto nel dire che fra le Big 5 (Apple, Amazon, Facebook, Google e Microsoft) l’azienda di Redmond è la più interessante. Il motivo fondamentale è che avendo perso la battaglia degli anni ‘10, il mobile, si è ristrutturata in maniera intelligente per essere all’avanguardia su tutti i nuovi macrotrend: intelligenza artificiale, cloud, realtà mista (aumentata+virtuale), edge/ambient computing, gaming. E lo sta facendo non solo con tante acquisizioni degne di nota, ma anche, a tratti, con spirito da startup; senza contare che è l’unica a non essere nel mirino di agenzie governative e agenti regolatori di mezzo mondo (più o meno). In settimana, gli earning trimestrali hanno dimostrato che Microsoft gode di ottima salute su tutti i fronti, ma la cosa più interessante, a mio giudizio, è avvenuta con Xbox. La divisione gaming aveva annunciato che il prezzo di Xbox Live Gold, necessario per i servizi in rete, avrebbe raddoppiato il prezzo — come accennato nella storia su GameStop, il consolidamento del flusso di entrate basato sugli abbonamenti online è una chiave strategica fondamentale. Il grido di protesta dalla community, però, è stato sufficientemente forte da far tornare la compagnia sui suoi passi, ammettere l’errore e addirittura eliminare la necessità del Gold per alcuni titoli specifici. Oro puro: bravo, Microsoft.
Bene, ora siete qualche passo avanti nel futuro: non vi resta che rallentare. Noi ci vediamo venerdì!