Quando ero alle scuole medie, ricordo che un ITES venne a fare una sessione di orientamento per illustrarci la sua proposta per gli studi superiori. Rimasi entusiasta: via tutti quei libri noiosi, avanti con computer, lavagne interattive, laboratori pratici. Un bel percorso verticale allineato con i miei interessi e niente fuffa teorica inutile. Nella mia testa avevo deciso la strada giusta per il mio futuro. Peccato che la scelta fosse fra liceo classico e liceo scientifico. Optai per la seconda, finii per prendere la prima.
“La forma mentis”, dicevano.
Qualche anno dopo, un mio professore di Inglese mi disse che nelle università italiane si studiano le materie con un’estensione e una capillarità incomprensibili, e si esce in tanti casi senza saper fare nulla. Troppe conoscenze, troppe poche competenze. Nel mondo anglosassone, l’istruzione — in particolar modo quella avanzata — tende ad essere molto più settoriale, specifica, e basata sulle skill.
In tutto il mio viaggio formativo io sono stato “vittima” della formazione all’italiana; dal liceo alle due università, passando per i miei studi personali e il lavoro, ho fatto molti salti senza mai fossilizzarmi su un solo campo. L’unica vera costante, per me, è stata la penna.
Pur con le sue oggettive difficoltà in termini di risvolti pratici, questa è una cosa che infonde in me sempre un senso di soddisfazione, forse fierezza. Non finirò mai di ringraziare per aver fatto il liceo. La curiosità orizzontale e la capacità di spaziare fra argomenti anche molto diversi tra loro sono un motore dal valore incalcolabile, e se Futuro Lento riesce a raggiungere il proprio obiettivo il merito è quasi esclusivamente attribuibile a quello.
La storia della forma mentis non è una bugia.
Quella di oggi, però, non è una narrazione su di me, bensì una che — surprise surprise — riguarda il tema che meglio conosco, e per cui, immagino, siete qui voi. Ho solo l’impressione che, guardandola dall’alto, sia una vicenda che offre qualche interessante parallelismo da tracciare.
Il futuro del gaming
Vi ricordate tutta la querelle su GameStop (che, tra l’altro, non è affatto finita)? Lasciamo da parte il discorso sulle azioni e torniamo sulla compagnia. GameStop è un’azienda americana a lungo leader nella vendita e nella distribuzione di videogiochi. La sua leadership, tuttavia, è stata di recente messa a dura prova da due fattori esterni. Sul piano logistico, Amazon è enormemente meglio attrezzata, dacché i videogiochi si prestano bene ad essere messi in un pacchetto di cartone e consegnati dritti a casa. Quello di GameStop è un modello di vendita al dettaglio che ha sempre meno motivo di tirare avanti.
Poi, più in generale, è la stessa industria del gaming che si sta spostando con forza sul digitale: tolta la scatola, il disco in sé e qualche altro oggetto da collezione che si può trovare nelle edizioni limitate, i videogiochi sono prodotti 100% virtuali, la cui esperienza si vive davanti a uno schermo. Molti gamer, in particolare i più giovani, preferiscono mettere in download i loro titoli preferiti e godere della relativa immediatezza, piuttosto che dover aspettare che arrivi un CD. E, quando il gioco è finito, anziché prendere polvere su uno scaffale può essere smaltito con un click.
Ora, non entriamo nel discorso dell’importanza della fisicità — io per primo sono un giocatore vecchio stampo, ho la mia collezione di Blu-ray accumulata negli anni che custodisco gelosamente e al massimo, più che passare al digitale, sono arrivato a ricomprare copie fisiche di giochi che avevo già acquistato, scaricato e finito. Quello della smaterializzazione non è un trend di cui vado pazzo, ma ne riconosco i vantaggi oggettivi e devo prenderne atto. Non è tutto da buttare: come visto la settimana scorsa, gli asset virtuali potrebbero riacqusitare valore in nuove forme nei prossimi anni. Ma comunque non è il punto che voglio affrontare1.
È necessario anzi fare un passo avanti, ed entrare nel territorio del cloud gaming. Se le copie digitali eliminano tutti i fastidi legati ad acquisto, possesso ed eventuale rivendita di un disco, rimane comunque il fatto che una console va acquistata, e che i file che contengono i vari giochi devono essere gestiti (cosa che vale anche per chi gioca su PC), tenendo conto degli aggiornamenti che arrivano periodicamente e dello spazio che occupano — un po’ come le app sul telefono. In più, una console o un computer sono attaccati ad un singolo monitor o a una TV, e a meno di spostare fisicamente i display e ricollegare i cavi di volta in volta sono macchine stazionarie.
È qui che entra in gioco il cloud, con una proposta allettante: perché non muovere entrambe le cose — console e giochi — sulla nuvola? Il cloud è, semplicemente, il computer di un altro: nel caso del gaming, quell’altro ha al momento tre nomi, ossia Amazon, Microsoft e Google. La proposta di quest’ultima, su carta, è la più interessante: la sua piattaforma, Stadia, permette di sottoscrivere un abbonamento, circa $10 al mese, e accedere al catalogo da ovunque: tramite un’app per smartphone, un browser sul computer, o una TV con un Chromecast collegato. L’intera console si trasforma, dunque, nella sola interfaccia: il titolo gira integralmente in remoto sui computer di Google, che gestiscono anche i file di salvataggio, e il punto d’accesso diventa libero, non più confinato al singolo schermo a cui la console è legata. Giocare da ogni luogo, su qualsiasi dispositivo, senza soluzione di continuità2. Questa è la promessa.
Spariscono i dischi da inserire, i file di cui tenere conto, gli aggiornamenti da fare. Tutto il management si sposta in cloud, e il giocatore si deve solo preoccupare di godersi l’esperienza come e dove meglio crede. C’è dell’altro: poiché i computer nei data center sono infinitamente più performanti del singolo PC o della console in mano all’utente (e possono essere aggiornati con frequenza, nelle retrovie, mentre una console viene venduta e ha un ciclo di vita medio di 7-8 anni), gli sviluppatori possono avvantaggiarsi di questo margine di potenza di calcolo per eliminare quelle limitazioni e quei vincoli tecnologici a cui spesso devono far fronte.
Il gol ultimo è ricreare una sorta di “Netflix dei videogiochi”, in cui il suddetto abbonamento garantisce l’accesso immediato ad un parco titoli vasto e in perenne espansione, ottimizzando anche le spese in maniera significativa per chi gioca con frequenza. Il solito discorso della tecnologia che, quando funziona al meglio, scompare. Non ci siamo ancora arrivati, la strada è lunga e ci sono svariate considerazioni tecniche di cui tenere conto. Ma è evidente come questo sia un modello genuinamente innovativo, che ridisegna l’architettura del mondo gaming dalle fondamenta, facendo leva su una tecnologia — il cloud — sempre più solida e collaudata. Ho pochi dubbi sul fatto che la direzione sia quella.
Proprio Google, un’azienda che storicamente non ha mai avuto nulla a che vedere coi videogiochi ma che gode di una posizione di indubbio privilegio nella tech stack, sembrava non solo interessata a farsi largo nell’industria, che ormai è anche parecchio lucrativa3, ma a presentarsi come un player di peso in prima persona. Non lavorando dunque sulla sola infrastruttura, bensì aprendo una divisione apposita, Stadia Games & Entertainment (SG&E), in cui far confluire due studi di sviluppo e dozzine di animatori, programmatori, designer, etc. rubati alle software house tradizionali — spesso offrendo dei salari notevolmente più alti, finanziati dalle loro profonde tasche. L’obiettivo: creare delle nuove intellectual property (IP) in esclusiva.
Stadia è arrivato sul mercato a fine 2019. Nel 2020, un anno di crescita importante per l’intero settore, è riuscito a fare poco e niente per accaparrare nuovi clienti e colmare molte delle sue lacune iniziali4. Poi, una mattina di inizio febbraio scorso, il boss di SG&E Phil Harrison — che aveva presentato Stadia come “il futuro del gaming” — ha mandato un’email all’intera flotta di dipendenti annunciando che i due studi di sviluppo sarebbero stati chiusi, con effetto immediato, senza aver neanche annunciato un singolo gioco. 150 dipendenti a casa, così.
What gives?
Scontro di culture
I due report usciti in settimana, di Bloomberg e Wired, evidenziano sostanzialmente il medesimo problema: Google, come anche Amazon prima di lei, aveva delle pretese sconsiderate circa le modalità di sviluppo, con particolare enfasi sulle tempistiche e alcune metriche insensate imposte dai piani alti ai team. Il mancato raggiungimento dei target ha portato ad una rapida ristrutturazione, compresi gli esoneri e un ridimensionamento del copioso budget. In un attimo, il divario culturale che esiste fra il mondo tech e quello gaming si è mostrato per ciò che è: una voragine. E non una voragine tecnica, ma una culturale. Emerge in maniera lampante qual è il grande guaio delle compagnie tech, e cioè che secondo loro ogni grattacapo si può risolvere con una tecnologia migliore, più robusta, più “intelligente”. Tutto è business: basta essere più dinamici ed operosi, o al più incrementare la spesa.
Ecco perché Stadia, foriero del cloud gaming, era stato spacciato per “il futuro del gaming”: è una tecnologia oggettivamente superiore, e funziona. Una che oltretutto, fra i player tradizionali, solo Microsoft è in grado di mettere in piedi, garantendo in teoria un vantaggio competitivo notevole — Sony e Nintendo non hanno le risorse necessarie. Quello che hanno, però, è un’esperienza pluridecennale che ha contribuito alla formazione di una cultura, squisitamente poliedrica, interdisciplinare ed orizzontale, che è esattamente il tassello che manca alle nuove entry. Perché nasca un buon gioco servono due elementi: un team composto da figure professionali disparate (inclusi, oltre ai profili tecnici, scrittori, storyteller, artisti, talvolta attori e registi) e tempo. Spesso anche tanto tempo — di sicuro non i 18 mesi di vita del GS&E. Da un minimo di due o tre anni per operazioni già rodate a produzioni che affrontano un ciclo iterativo che può arrivare ai sei/sette, o oltre. È solo in ambienti del genere, largamente creativi, che le migliori idee trovano terreno fertile.
Nei team di Stadia (e di Amazon) gli sviluppatori erano invece valutati in base a parametri quantitativi, tarati sui grafici o sui designer del prodotto e della user experience (UX), e su tempi martellanti e irragionevoli. Ignorando completamente il fatto che benchmark numerici per stabilire quanto un gioco sia creativo o divertente non esistono — e non hanno senso di esistere. Il game development è tutt’altra cosa. Vi sono addirittura giochi molto apprezzati in cui anche il “divertimento” tout court ha poca valenza, e dove dunque l’esperienza e il suo relativo successo sono ancora più complessi da inquadrare in termini oggettivi. Non esiste una roadmap di sviluppo precisa, una strada maestra seguendo la quale è legittimo aspettarsi un risultato positivo, o quantomeno uno verificabile empiricamente. Il processo, come detto, è caotico, magmatico, organico, soprattutto nelle production di alto calibro a cui il colosso di Mountain View aspirava. Niente a che vedere con le strutture tipiche di prodotti e servizi, più rigide ed efficienti, a cui Google e le altre sono abituate.
Il desiderio di imporsi come concorrenti di peso nell’industria dei videogiochi combinato a una quasi totale mancanza di comprensione del settore hanno dimostrato che il machismo ingegneristico a cui il Big Tech è abituato non può che sbattere contro un muro nel momento in cui il successo non è legato a fredde logiche numeriche, ma ad un’esperienza molto più umana e sensibile a ben altri elementi.
Amazon e Google hanno speso centinaia di migliaia di dollari per foraggiare interi studi di sviluppo e una moltitudine di nuovi giochi, per non parlare delle cifre inverosimili che hanno sborsato per portare sulle proprie piattaforme titoli che già erano usciti sulle concorrenti. Soldi che, messi nelle mani di più sviluppatori di piccolo taglio, avrebbero potuto garantire una fioritura di proposte sicuramente più ampia. Fra i mille esempi, quello più calzante che mi balza in testa è l’ormai celeberrimo Among Us, un titolo indie sviluppato quasi del tutto da solo cinque persone, con un budget misero, ed esploso per motivi che nulla hanno a che vedere con la tecnologia. Di Among Us, su Stadia, non v’è traccia, perché assenti erano le condizioni per cui un Among Us potesse vedere la luce.
La logica dell’arte che logica non è
In un’intervista del 2014 rilasciata a The Verge in occasione di un momento importante per l’azienda, il Vice President del dipartimento di design di Google, Matias Duarte, spiegava la filosofia dietro al nascente Material Design, il linguaggio estetico che di lì a poco avrebbe ridisegnato l’intera identità visiva della compagnia. L’ultima frase mi è sempre rimasta in mente:
Il compito più importante del design è quello di trovare soluzioni all’interno di alcuni paletti. Se non ci sono quei paletti non è design, è arte.
Questa frase, da sola, è perfetta per spiegare il ruolo e la rilevanza che il design ha in quasi ogni business, fuori e dentro al tech. Quei paletti sono fondamentali e imprescindibili. E, beninteso, esistono anche nei videogiochi: non è un caso che la disciplina a cui fanno capo abbia preso il nome di “game design”. Ma i videogame sono un’eccezione, una sintesi che supera la pur sacrosanta e veritiera distinzione. Perché il risultato finale, al netto delle limitazioni tecnologiche e di alcune scelte progettuali, non è un prodotto la cui riuscita risponde ad alcuna metrica, non è incasellabile, e soprattutto non viene creato per risolvere un problema. Fermarsi al solo design è come guardare un quadro e prendere in esame la qualità della tela, dei colori usati, della cornice.
Quello che fa la differenza è ciò che c’è dentro, e ancor di più ciò che suscita: il videogame è un prodotto artistico. Può “semplicemente” far divertire, può emozionare, può ispirare o far sognare, può raccontare una storia o mandare un messaggio. Trasportare il giocatore in un altro luogo — tramite un avatar, quasi letteralmente. Ma in ogni caso è un pezzo di cultura che può avere successo solo se è in grado di catturare o generare uno zeitgeist. Creare un’esperienza del genere è un processo arduo, che non si può forzare nei tempi o aggirare con la forza dei quattrini. E se fare un gioco è difficile, farne uno bello è un’impresa quasi titanica.
“Il business dei videogiochi sembra sempre un’ottima idea, finché uno non deve entrare nel business dei videogiochi.” Amen.
La cecità ingenita al mondo tech, figlio di una cultura STEM ossessivamente legata alla quantificazione e ai KPI5, è un enorme ostacolo che neanche i soldi di Google o Amazon possono saltare. L’arte, la creatività, l’ingegno, l’ispirazione: tutti elementi assolutamente cruciali, e non cose che si possono estrarre dal cappello magico tirando fuori il portafogli e assumendo un ingegnere in più; comprare il tempo, poi, non ne parliamo. È, a mio avviso, proprio un problema di forma mentis, che impedirà al Big Tech di trionfare in questo spazio. Senza IP valide — senza giochi — la tecnologia del futuro è solo una meravigliosa autostrada senza automobili. Una bella tech demo e poco più.
Come per Netflix, a cui la gente non si abbona perché il video player è migliore o perché “va più veloce", ma perché ci sono gli show e i film che si vuole guardare, la scelta di una piattaforma è guidata sempre e solo da una cosa: i giochi. Il contenuto. Ripropongo la frase “content is king”, tanto abusata quanto intrisa di verità. E in questo, paradossalmente, sono proprio i due “pesci piccoli”, le nipponiche Sony e Nintendo, ad essere posizionati meglio6, poiché possono contare su una valanga di veri e propri franchise (esclusivi) — e i team alle loro spalle — che da soli valgono il prezzo del biglietto. The Last of Us e Death Stranding, Super Mario e The Legend of Zelda (giusto per citarne alcuni tra i più celebri, a rischio di fare torto a tanti altri) sono sì delle IP impegnative, con costi di sviluppo che fluttuano agevolmente sopra i $100 milioni, ma sono soprattutto titoli in grado di guidare la conversazione, regalare esperienze straordinarie, validare un medium spesso incompreso e bistrattato, e in cima a ciò anche far guadagnare molto bene.
Non uso mezzi termini: sono opere d’arte.7
Ci sono tanti problemi che la tecnologia è in grado di risolvere, dacché sempre più ambiti rientrano nel novero delle sue competenze. Ed è inevitabile (e indispensabile) che le menti richieste per alcuni sforzi mastodontici siano estremamente verticali e specializzate in nicchie — pensate a chi lavora nella biomeccanica, nel quantum computing, o per combattere il cambiamento climatico. Ciò, sia chiaro, non nega il fatto che queste persone abbiano poi un’intelligenza elastica e laterale: le due cose non si escludono a vicenda.
Proprio per questo, però, mi piacerebbe vivere in un mondo con teste meno calcolanti e più pensanti. Un cambio di forma mentis che dovrebbe avvenire proprio in termini di cultura più che di apertura stricto sensu. Questa, a mio avviso, è la lezione più generale, importante da apprendere per evitare che i silo culturali nei quali inesorabilmente andiamo a finire non arrivino ad impedire la comunicazione con gli altri, e, di conseguenza, non risolvere i problemi — come, qui, la realizzazione del potenziale del cloud gaming. Se non un impegno attivo ad uscire dalla propria comfort zone, come minimo un bagno di umiltà; la consapevolezza che in alcune situazioni sarebbe meglio ascoltare e imparare.
Mi sovviene l’episodio evocato da Bloomberg qualche settimana fa, menzionato nel numero quattro, in cui è raccontato come il capo degli Amazon Game Studios Mike Frazzini, in maniera del tutto analoga agli executive negli studi di sviluppo di Google, si presentava ai meeting avanzando pretese illogiche senza avere la più pallida idea di cosa fosse un videogioco, con uscite francamente imbarazzanti. Adesso, Frazzini è un veterano di Amazon, verosimilmente un individuo di una certa brillantezza e non una persona messa lì per caso. Eppure, in modo palese, una vittima di quell’arroganza culturale di cui sopra. Di una mente impostata in modo troppo inflessibile. Un MBA, non un liceale. Con gli stessi controproducenti risultati: centinaia di milioni buttati, neanche un singolo gioco in odore di successo.
La riuscita di un progetto artistico passa per l’armonia trasversale fra più discipline, e per i tempi organici che il suo sviluppo richiede. I migliori videogiochi, se vogliamo, sono un po’ figli di un futuro lento8. Chi ha la fortuna di conoscere le perle che questo universo ha da offrire ne comprende bene anche il valore, inestimabile, ed io per primo mi auguro che nel domani ci siano più titoli di qualità e più persone interessate ad arricchirsi con l’approccio a questa meravigliosa forma d’arte interattiva.
Ma che sia arte, senza limiti.
Futuro Lesto:
Stanno girando su TikTok alcuni video di Tom Cruise. L’account, dal nome @deeptomcruise, riprende l’attore in diverse location e situazioni, da un campo da golf a un negozio di vestiti qui in Italia passando per un’altra clip in cui si destreggia con un trucco di magia. Unico problema: non è Tom Cruise. Il “deep” nella handle fa riferimento al deep learning, una sottobranca dell’intelligenza artificiale che, applicata alle immagini, permette fra le altre cose di sintetizzare una versione artificiale di un elemento (il volto di Cruise) ed applicarlo ad altre immagini, anche in movimento (cioè ai video). Due considerazioni. La prima è sul livello di fedeltà, semplicemente impressionante. Ci sono ancora degli artefatti che guardando con più attenzione fanno affiorare la natura artificiale dei cosiddetti “deep fake”, ma il fatto di sapere in partenza che si tratta di un falso ha un impatto. Ad un occhio più distratto o rilassato, però, la differenza potrebbe sembrare indistinguibile — e che gli algoritmi migliorino fino ad annullare le aberrazioni è solo questione di quando, non di se. Da cui la seconda annotazione: con questi strumenti non è solo (relativamente) facile fabbricare video falsi dal nulla, mettendo in bocca parole a persone che non le hanno mai pronunciate, ma falsificare una qualsiasi prova video potrebbe farsi alla portata di tutti. Un pensiero terrificante; com’è terrificante constatare che i tool costruiti per smascherare i deep fake sembrano essere, per adesso, quasi del tutto inefficaci. Lezione numero uno del web, all’ennesima potenza: non credete a tutto ciò che vedete. Nemmeno ai vostri occhi.
Torniamo a parlare di smart working, e quindi torniamo a parlare di Microsoft. Fra le compagnie più grandi, il gigante di Seattle sembra quello maggoirmente incentrato a spendersi per rendere il lavoro agile sempre più smart. Il che ha senso, poiché Microsoft è un’azienda i cui clienti sono principalmente business. La visione è futuristica: la nuova piattaforma, Mesh, è il primo tentativo concreto di creare spazi condivisi per la collaborazione in realtà aumentata, e la prima versione è già operativa. Ologrammi a gogo. Siamo lontani da questo futuro? Sì, ma neanche troppo. Si tratterà più di risolvere il quesito dell’adozione (il visore che usa Microsoft, HoloLens, ha un prezzo proibitivo di $3500) che non dello sviluppo della tecnologia in sé, i cui building block sono in verità più o meno tutti già a portata di mano. Non è una garanzia che dalle chiamate su Zoom si passerà a meeting e a vere e proprie collaborazioni sui progetti in “presenza virtuale” dall’oggi al domani; ma, nel giro di un decennio, questa potrebbe diventare la normalità per qualcuno. Il video di introduzione, al solito, è un po’ romanzato, ma fantastica meno di quanto potrebbe lasciar intendere. Per la svolta consumer, come sempre, bisognerà aspettare Apple. (Se invece volete un assaggio di un’applicazione più reale, per i più nerd ci sono i Pokémon.)
Quando qualcuno vi dice che ha paura del cinqueggì, fate loro presente che le celle radio sulla terra sono circa 40 milioni. E sono qui già da un po’.
Immagino che, oltretutto, qualcuno si starà chiedendo: “Ma i giochi usati? I dischi si possono anche acquistare di seconda mano”. Ottima osservazione! E la risposta, ovviamente, è quella più triste: i download digitali “di seconda mano” non esistono, quindi l’unica speranza è attendere che i prezzi ufficiali scendano. Cosa che, per fortuna, accade abbastanza spesso.
Naturalmente serve ancora un controller come periferica, e sia Google Stadia sia Amazon Luna lo offrono. I controller di Xbox e PlayStation, inoltre, sono compatibili; su smartphone alcuni titoli possono essere giocati con il touch screen, e i computer hanno sempre mouse e tastiera.
Per capirci, il giro da circa $180 miliardi rende il gaming più grande del cinema a livello globale e dell’industria dello sport in Nord America — messi insieme!
Delle promesse descritte sopra, al lancio, Stadia poteva contarne forse una sola, e cioè che il servizio di base funzionava. Delle feature aggiuntive, invece, neanche l’ombra; il parco titoli è rimasto scarno (un’ottantina di giochi) e soprattutto il modello di abbonamento prevede comunque che la maggior parte venga acquistata separatamente, con solo qualche offerta ciclica e temporanea per download gratuiti.
O, nel caso di Google, gli OKR, “objectives and key results” (obiettivi e risultati chiave).
Microsoft è in una posizione di mezzo: ha sbagliato tutto nella scorsa generazione, proprio puntando su aspetti al di fuori del gaming bocciati sonoramente dai fan, e dunque gode di un numero inferiore di IP importanti. Dall’altro lato, come evidenziato, è l’unica con i muscoli finanziari necessari per costruire da sé un’infrastruttura. Motivo per cui la sua offerta di cloud gaming, formata dal servizio xCloud in tandem con l’abbonamento Xbox Game Pass, potrebbe essere una combinazione vincente.
Ci tengo a precisare che, sebbene i cosiddetti titoli “AAA”, dai budget più imponenti, siano i più discussi (complici le spinte di marketing), le tre console principali (PS4/5, Xbox One/Xbox Series S|X e Nintendo Switch) sono stracolme di perle di rara bellezza, spesso anche a prezzi infimi. Non avranno un ritorno economico da capogiro, ma sono sicuramente esempi di successo. Ne lancio due qua in coda: Life is Strange e Hades.
…il cui opposto, in questo caso, sarebbe il cosiddetto “crunch”, una pratica tristemente diffusa nelle software house per cui gli sviluppatori lavorano a ritmi inumani. Anche qui, guarda un po’, con risultati pessimi o addirittura controproducenti: vedasi Cyberpunk 2077.