Per giungere alle conclusioni sull’analisi di Shopify v. Amazon della scorsa settimana ho tratto alcuni spunti dal celebre libro “The Everything Store” di Brad Stone, che pur avendo quasi otto anni sulle spalle continua ad essere una lettura imprescindibile per chi vuole conoscere meglio l’azienda di Jeff Bezos. Il titolo è perfetto: Amazon è sempre più “il negozio per tutto”.
Analogamente, su queste pagine abbiamo ripreso più volte l’idea che “Apple” sia un modo carino per dire “The iPhone Company”. Amazon ha fatto la propria fortuna diventando un canale di smercio per quasi ogni tipo di bene; Apple è diventata la prima compagnia con un market cap di oltre 2 trilioni (un numero con tanti, tanti zeri) principalmente vendendo il suo gioiello di punta. C’è un’ottima probabilità che stiate leggendo Futuro Lento con un iPhone tra le mani.
Cosa significa, tuttavia, diventare così imponenti? In primo luogo vuol dire che il core business inizia lentamente a raggiungere il proprio tetto naturale, e la logica conseguenza di ciò è che le ingenti risorse vengono via via dirottate verso i canali limitrofi. Ecco perché, ex multis, Amazon spende oltre $13 miliardi per acquistare Whole Foods (la cui logistica diverge in maniera sostanziale da quella degli oggetti in scatole di cartone) e perché Apple spinge per promuovere di più i suoi servizi.
Facendo leva sulla enorme base installata, si sbloccano altrettanto grandi opportunità di business. Alcune sono piuttosto tangenziali, gestite solo per rimpolpare la bottom line, allargare il fossato e ingabbiare gli utenti nell’ecosistema. Altre, invece, hanno possibilità di espandersi in bracci notevolmente più robusti e redditizi, tali da diventare voci separate nei report trimestrali.
Il gaming è una di queste: globalmente ballano circa $180 miliardi, quasi il doppio del cinema. Non è quindi un caso che, seguendo la scia decennale di Microsoft e Xbox, ci si stiano buttando gli altri quattro del Big Tech: Facebook e Google, con Oculus e Stadia; e poi proprio Amazon ed Apple.
Quando il gioco si fa duro, insomma, le grosse aziende iniziano a giocare. Letteralmente.
La guerra dei giochi
Facebook meriterebbe un capitolo a sé: la storia di Oculus è intrinsecamente legata alla virtual reality (VR), che tolto il PlayStation VR di Sony e qualche sforzo legato a Steam e HTC vive ancora in un mondo separato. Poi ci sono le centinaia di minigiochi a cui si accede da Facebook stesso, tramite app o browser; e infine Facebook Gaming, che si interseca nel discorso streaming con YouTube e Twitch, la punta di diamante di Amazon. Tante piccole incursioni, quindi, ma non un impianto centralizzato e strutturato.
Poi c’è il lato della produzione, in cui Facebook è del tutto assente, e dove Amazon si è ancora soltanto bagnata i piedi, scottandosi: fra un fallimento e l’altro (di cui abbiamo fatto menzione nel numero quattro) la sua strategia è tutta da provare, e la divisione che gestisce la piattaforma Luna è a dir poco acerba. Con investimenti multimilionari in studi di sviluppo e un rinnovato impegno, tuttavia, l’intenzione sembra davvero quella di trasformarsi in un concorrente di peso.
I building block per il cloud gaming, come visto qualche settimana fa, ci sono; il problema — che è il vero grosso problema — sarà creare un numero sufficiente di intellectual property (IP) interessanti in grado di incuriosire i giocatori vecchi e nuovi. Avendo (per ora) fallito anche Google nell’impresa, non so come andrà a finire, sebbene da gamer non posso che sperare in un po’ di sana competizione.
Chi ha una posizione curiosa in questo panorama, invece, è proprio Apple. Ciò che caratterizza il suo subscription service, Apple Arcade, si basa su quattro principi fondamentali:
1) Hardware: in pieno stile Apple, il servizio è limitato ai suoi dispositivi, necessari dunque per giocare. Con oltre un miliardo e mezzo di unità (iPhone, iPad, Mac, Apple TV, etc.) in circolazione, tuttavia, il problema è quasi risolto alla base, e nessun’altra azienda al mondo può minimamente vantare un numero così ampio di potenziali giocatori già equipaggiati.
2) Sviluppatori: lo scorso anno Apple ha dichiarato che ci sono 23 milioni di developer che distribuiscono app sulle sue piattaforme, di cui un cospicuo numero si occupa proprio di giochi. Nessuno della nuova guardia vi si avvicina nemmeno remotamente, e questo fa un’enorme differenza.
3) Prezzo: sembrerà strano, parlando di Apple, ma Arcade costa circa la metà di tutti gli altri servizi — 5€ al mese anziché 10€ in media1 — e c’è la possibilità di inglobarlo nella subscription più grande, Apple One, che ammortizza ulteriormente la spesa.
4) I tipi di gioco: e qui si cela la distinzione fondamentale. Google Stadia e Amazon Luna hanno l’obiettivo di andarsela a giocare sul mainstream, per così dire, spalla a spalla con PlayStation e Xbox. Ecco perché si è sentito parlare di spese folli per alcuni franchise multipiattaforma (Assassin’s Creed, Red Dead Redemption, Resident Evil, etc.). È sempre qui, tuttavia, la chiave del (momentaneo?) fallimento: cambiare il metodo ma non il merito, ossia offrire titoli già disponibili altrove ma attraverso un abbonamento in cloud e non per tramite di una console apposita. Apple, al contrario, sta saggiamente puntando sul contenuto originale, chiedendo ai propri sviluppatori di creare titoli in esclusiva per Apple Arcade e lasciando perdere le IP più celebri.
Nintendo: la Apple dei videogiochi
Prima che gli universi tech e gaming si avvicinassero così tanto, ero solito pensare a Nintendo come la Apple dei videogiochi. Negli ultimi vent’anni, in cui Sony e Microsoft hanno combattuto testa a testa a colpi di esclusività temporanee, migliorie grafiche e sviluppatori “rubati”2, la casa giapponese si è tenuta in disparte, andando per la propria strada. In due casi su tre — Wii e Switch — con enorme successo, forte delle proprie IP d’eccezione (Mario, Zelda, Metroid, Pokémon, etc.) e soprattutto di un modo diverso di concepire i giochi, in cui l’hardware si è trovato ad occupare un ruolo essenziale nella user experience (UX) molto più che nelle mere specifiche tecniche.
Mi spiego: la lotta fra Sony e Microsoft si è incentrata fortemente sulla potenza grafica e computazionale delle due console rivali, al punto da rendere gli avanzamenti tecnologici un chiodo fisso martellante delle campagne marketing: più teraflops! HDR! 60fps! 4K! — e via numerando. Senza mai realizzare il ruolo largamente marginale di tali specifiche, la cui validità non è intrinseca ma solo da prendere in considerazione nel momento in cui è suffragata da titoli originali. Un gioco splendido da vedere e noioso da giocare, in sostanza, ha poco da dire (e vendere) — Microsoft ha perso la battaglia della scorsa generazione proprio a causa di ciò3.
Viceversa, le console Nintendo sono sempre state volutamente meno performanti, ma con l’insostituibile pregio di essere l’unico portone d’ingresso ai prestigiosi franchise di cui sopra. Per giocare a capolavori come Breath of the Wild o Super Mario Odyssey c’era e c’è un solo modo: compare Nintendo Switch. Di più: come dicevamo, Wii e Switch sono state progettate espressamente per cambiare l’esperienza di gioco in sé, e rendere questa marcata distinzione un elemento di unicità. Se passare da una PlayStation 3 ad una Xbox 360 significava comunque giocare con un pad (quasi identico) in mano, infatti, accendere un Wii4 richiedeva il passaggio ad un set di controlli del tutto differente, studiati affinché si integrassero con la UX stessa del gioco in questione.
Cosa ha più senso per un gioco di corse in auto, muovere una vettura con una combinazione di tasti o usare il telecomando come se fosse un volante5? La risposta, per il consumatore medio, viene da sé. Aggiungeteci Super Mario come mascotte ed ecco che Mario Kart Wii piazza oltre 37 milioni di copie. Anche con Switch i giochi si adattano, dacché la console ha una struttura modulare: si può utilizzare come una portatile o attaccarla ad un schermo esterno, e i controller Joy-Con sono estraibili, con la possibilità di trasformarli in due mini controller indipendenti per giocare in compagnia. Una storia del tutto separata dalla narrazione dominante e uniforme di PlayStation 4 e Xbox One.
Tutta la filosofia di Nintendo si basa sul trovare una strada realmente alternativa e perseguirla con geniale creatività. A ben vedere, il motto dell’azienda potrebbe essere proprio “Think Different”, lo storico slogan associato ad Apple6. Ma ora che è Apple stessa ad essere entrata in questo mondo?
Apple Arcade: Think Different (?)
Mi viene da pensare che la Apple dei videogiochi, nel prossimo futuro, sarà proprio Apple, anch’essa dritta per la sua strada. E il twist di UX? Il touchscreen, naturalmente. È vero — tecnicamente Apple Arcade gira anche su macOS ed Apple TV, sprovvisti di schermo touch, ma entrambi i sistemi sono del tutto minoritari. La forza vincente dei giochi sviluppati per Arcade non verrà da uno zoppo scimmiottamento delle console tradizionali — la combo pad+schermo — mancando sia il supporto diretto sia la potenza grafica (nemmeno i Mac più performanti sono ideali per il gaming)7. Se pure fosse tecnicamente fattibile (e sostenibile dal profilo finanziario), a nessuno importerebbe che il nuovo Call of Duty è disponibile su Apple Arcade.
Il cuore della piattaforma è iPhone, con iPad a fare da (ottima) appendice. E il touchscreen è un po’ come il telecomando del Wii e i Joy-Con di Switch: un (pezzo di) hardware distintivo e unico nel suo genere8 in grado di stimolare gli sviluppatori a creare meccaniche nuove ed ingegnose che avrebbero poco senso altrove. Gli esempi ci sono già, e sono giustamente noti: Monument Valley, Alto’s Adventure ed Alto’s Odyssey, Sky — perfino, sì, il caro vecchio Temple Run. Sarà poi lecito aspettarsi i porting di altri indie che possono funzionare bene su un touchscreen, come ad esempio Sayonara Wild Hearts o To The Moon (che troverò sempre il modo di citare e consigliare).
Tutti titoli che, facendo un uso sapiente del peculiare input method, hanno permesso allo smartphone di esprimere la propria voce nel gaming senza andare a battersi in una gara futile e persa in partenza con macchine equipaggiate con tutt’altro arsenale. Giochi dall’interazione più semplice, ma non per questo meno valida. Altri esempi come If Found… e Florence, sebbene durino una manciata di ore, dimostrano che un titolo per smartphone non deve avere nulla da invidiare a nomi più celebri ed altisonanti. Pensare ancora che si tratti di “giochini” sarebbe piuttosto naif.
Nel complesso, con l’ultimo aggiornamento, i nomi in catalogo sono già 180 — fra nuove esclusive, vecchie glorie (ve lo ricordate Fruit Ninja? Threes? Cut The Rope?) e cosiddetti “Timeless Classic” come scacchi, sudoku, solitario e cruciverba9. Il parco titoli, in buona sostanza, è già ben fornito, e immagino che l’espansione continuerà.
Questa, per Apple, è senza dubbio la strategia giusta per approcciarsi al gaming. Andando a pescare dal vasto e diversificato pool di utenti che comprano iPhone e iPad per tutt’altri motivi, la compagnia offre un rapido (ed economico) accesso ad un mix di titoli innovativi e alla portata di chiunque. Da giochi più frivoli a storie impegnate e artisticamente valide, che utilizzando intelligentemente il touchscreen non hanno motivo di compromettere sulla qualità.
Se Apple dovesse decidere di spingere più convintamente sull’acceleratore, finanziando in prima persona i developer per la creazione di franchise veri e propri (magari in tandem con Apple TV+?), potrebbe venirsi a creare un circolo virtuoso dall’impatto notevole su tutta la landscape, tanto per gli sviluppatori quanto per i gamer. L’intera stack è già in ordine, a differenza di Luna e Stadia, e dunque trovo Arcade la piattaforma meglio studiata e strutturalmente solida.
Apple ha tutte le carte in regola per affermarsi come un player sempre più influente in questo terreno fino ad ora inesplorato; di nuovo in grado, finalmente, di pensare altrimenti.
Futuro Lesto:
Se la forza delle IP di Apple si baserà su giochi touch-friendly e quella di Nintendo può fare affidamento su decenni di storia, i franchise di Sony hanno più o meno tutti una cosa in comune: sono grandi, costosi e tendenzialmente di successo. Sono i The Last of Us e i God of War, gli Horizon e i Death Stranding. I blockbuster PlayStation, in sostanza, sono un po’ come quelli di Hollywood — ma meglio. Fra Nintendo, Apple, e anche un folto programma dedicato ai titoli indie per rafforzare il Game Pass di Xbox, Sony pare aver dunque preso la decisione di distaccarsi dalle produzioni “minori”, pur avendo una ben nutrita schiera di giochi del genere che hanno caratterizzato il portfolio di PS4. L’obiettivo dichiarato è di raddoppiare gli sforzi finanziari dedicati ai nomi più grossi, una scelta che comprendo solo in parte: il ritmo di esclusive di alto calibro è stato già molto alto nella scorsa generazione, e colmare i gap con giochi più brevi e/o leggeri era un modo razionale di mantenere la giusta alternanza. Va bene accentrare le risorse per sviluppare nuove IP, ma non tutti gli sviluppatori possono essere Naughty Dog.
Sempre parlando di soldi investiti da Sony, la divisione PlayStation è alla guida di un nuovo round di finanziamenti per niente meno che Epic Games, lo sviluppatore e publisher guidato da Tim Sweeney. I numeri sono da capogiro: $1 miliardo di fondi, di cui $200 milioni dal colosso nipponico. Per la casa americana la valutazione schizzerebbe così attorno ai $29 miliardi, in enorme crescita dai 18 dello scorso anno. Oltre all’ovvio Fortnite, Epic gestisce due business fondamentali: il suo Store, canale di distribuzione online che inizia a dare del filo da torcere a Steam, e l’Unreal Engine, il motore grafico dietro a uno spaventoso quantitativo di giochi, film e serie televisive che utilizzano elementi interamente digitali. Si tratta, insieme a Unity, del più popolare engine del mondo, la cui importanza nella creazione di esperienze virtuali di ogni genere non farà che crescere in futuro. È questa, a mio giudizio, la componente che interessa maggiormente a Sony. I videogiochi stanno pian piano sfondando le pareti della community dei gamer ed integrandosi sempre più nel tessuto della pop culture generale — un esempio su tutti sarebbe il concerto di Travis Scott proprio su Fortnite. Negli anni futuri il peso di questa centralità potrebbe farsi sentire, e la casa giapponese vuole giocare un ruolo primario. Ma anche rimanendo più sul gaming nudo e crudo, come già accennato sul numero cinque, il sodalizio fra le due compagnie si spiega da sé.
È stato toccato il tema delle acquisizioni, e nessuna nel Big Tech ha avuto negli ultimi anni un carrello della spesa ricco come quello di Microsoft. La settimana scorsa si parlava di Discord, con cui l’accordo non è ancora stato chiuso; è invece certo l’assorbimento di Nuance — un’azienda il cui prodotto principale è una tecnologia di riconoscimento vocale e analisi del testo con intelligenza artificiale — per la bellezza di quasi $20 miliardi. Si tratta della seconda spesa più grande dietro a LinkedIn nel 2016 ($26 miliardi) e la quinta, da allora, ad aver superato i $5 miliardi di spesa; l’ultima volta giusto mesi fa con ZeniMax, per $7,6 miliardi. La Microsoft di Nadella sembra inarrestabile, con acquisti mirati e senza paura di gettare soldi al vento. Anche in questo caso, va ricordato, stiamo parlando di una compagnia con quasi due trilioni di market cap, più soldi in cassa di quanti un essere umano medio si troverà fra le mani in cento vite, e soprattutto una senza gli occhi di ogni regolatore antitrust sulla faccia del pianeta puntati addosso. Rimane, tuttavia, l’implacabilità encomiabile, ed un’evidente capacità nel riuscire ad integrare le nuove realtà nel barocco intreccio organizzativo della corporation. Nuance, a dispetto di ciò che si dice, non ha nulla a che vedere con Cortana, l’assistente digitale; per Microsoft il senso della compera sta nell’accesso ai dati di tutti i sistemi in cui la tecnologia di Nuance è già integrata, primo fra tutti l’healthcare, e la possibilità di lavorarli nella sua suite di prodotti per offrire soluzioni più sofisticate e scalabili ai clienti. L’idea sarà poi applicare la tecnologia anche ad altri settori, in una visione del cloud diversificata per industria. Un’altra bella scommessa, insomma.
Chi mi conosce sa che sono un amante delle mappe. Dio solo sa quanto tempo ho perso navigando da un punto all’altro di Google Maps, vagando fra i meandri della Terra alla scoperta di anfratti reconditi. Con una nuova iniziativa targata Google Earth, da Mountain View ora vogliono coniugare l’esperienza spaziale con quella temporale. È online Timelapse: uno splendido tool che permette di rivedere immagini satellitari degli ultimi 37 anni del nostro globo terracqueo, anno per anno o in rapida sequenza. È così possibile ammirare la massiccia espansione urbana di alcuni territori, come ad esempio in Cina o in Medio Oriente, ma anche le devastanti deforestazioni e gli scioglimenti dei ghiacciai. Google ha ovviamente preparato una serie di location ad hoc, con relative storie, ma è possibile girare ovunque. Curiosando un po’, sono rimasto molto colpito da Shanghai e Lagos, e mi sono poi imbattuto nel meraviglioso Monte Taranaki. Andate a vederlo, e ricordatevi da fare zoom out — altro che alieni e cerchi nel grano, noi abbiamo Madre Natura!
In realtà non è così strano: quei tipi di gioco, oltre che adatti alla piattaforma, hanno il pregio di essere tendenzialmente più brevi e semplici, con costi di sviluppo molto contenuti. È dunque possibile per Apple sussidiare, con gli introiti degli abbonamenti a 5€, le vendite di giochi standalone che normalmente avrebbero un prezzo medio analogo o più basso. Se ogni titolo, come su console, costasse dieci volte tanto, il modello sarebbe insostenibile. Win-win!
Devo ammettere che il giorno in cui vidi Hideo Kojima — il genio giapponese da sempre legato a Metal Gear Solid (e, per estensione, Sony e PlayStation) — sul palco di Microsoft all’E3 del lontano 2009 ci rimasi…
Peggio: su Xbox sono mancati anche quei titoli “belli da vedere e noiosi da giocare”. Il catalogo di Xbox One è stato a lungo un arido deserto. Lo stesso problema che affligge Stadia e Luna, che hanno l’ulteriore handicap dell’assenza quasi totale di sviluppatori che lavorano in partnership esclusiva.
Questo non vuol dire che Mario Kart Wii sia meglio di Gran Turismo — sono due prodotti incomparabili. È però innegabile che la UX semplificata apra ad un pubblico molto più vasto, spesso riferito spocchiosamente come quello dei “casual gamer”.
Da anni, infatti, si parla proprio della “Nintendo difference”.
Questo spiega anche un altro handicap che i nuovi aspiranti re del cloud gaming (Google e Amazon) hanno: è vero che, per funzionare, Stadia e Luna hanno bisogno di nulla più che di un’app o un browser — che si trovano su ogni device — ma questo agnosticismo della piattaforma è anche un limite, perché non c’è modo di differenziare radicalmente la UX in-game. Le poche idee portate avanti da Stadia, come lo State Share, fanno leva sul software (e ovviamente sul cloud), e possono essere replicate.
Lo schermo di Switch è touchscreen, tecnicamente, ma giocare sull’ultima console Nintendo è ancora un affaire che prevede, appunto, l’uso dei Joy-Con.
Anche se non sono certo questi i giochi che valgono il prezzo del biglietto, averli inclusi nel servizio può aiutare molto. Un po’ come avere Friends e The Office su Netflix, se vogliamo — esattamente il tipo di contenuto che, invece, non offre Apple TV+. Che non a caso stenta a decollare.