Contestualizzare la tecnologia è uno dei motivi per cui è nato Futuro Lento. Poiché si tratta di una materia così ampia e ramificata, spesso le profonde correnti che genera sfuggono a chi non ha il tempo (o la voglia) di guardare più in profondità. Che tanta spazzatura venga a galla è anche e soprattutto colpa di chi fa informazione, o presunta tale, e questo spazio vuole essere un antidoto, un luogo per avere risposte più certe. O, quantomeno, argomentazioni ben documentate ed approfondite.
Finché si rimane nel campo, l’estensione nello spazio (con i temi scelti ogni settimana) e nel tempo (il presente; con un occhio al futuro, naturalmente) mi permette di gestire le analisi con una certa fiducia. Per rimanere nella metafora marina, navigo in queste acque da una decina d’anni e qualcosina l’ho imparata. Mi auguro che ciò si rifletta nella lettura.
Ci sono dei momenti, tuttavia, in cui quell’orizzonte si allarga così a dismisura che anche solo tentare di dare risposte sarebbe velleitario; io non ho la sfera di cristallo, e immagino di non essere il solo. E dunque, nell’addentrarmi nell’argomento di questo numero — vasto, eterogeneo ed ancora in divenire, del quale sono tutto fuorché un esperto — vorrei provare a non perdere il filo del discorso cercando di inquadrarlo cautamente, con le domande giuste e la visualizzazione di alcuni possibili scenari.
Spero che il discorso del bundling e unbundling, già affrontato un paio di settimane fa, non vi abbia seccato. Come scritto allora, è una lente di analisi che si ripresenta con frequenza, e che aiuta a mettere a fuoco anche le questioni più complesse e fumose.
Oggi non è diverso.
Le città: poster child bundle
Se si dovesse pensare ad un esempio emblematico di bundling nella vita reale, sarebbe sufficiente non andare al di là delle città. Per decenni, se non secoli, le città hanno funzionato da luogo principe di aggregazione. Le persone convergono in uno spazio ben delimitato, mettono su radici, creano una comunità, e il piccolo centro man mano si allarga fino ad includere i borghi satellite o a generare nuove aree periferiche da sé. Da manuale.
Non tutte le città sono uguali, però, e lo stesso vale per i loro percorsi di crescita. Ciò che è più comune è che la loro attrazione magnetica è alla base di un circolo virtuoso: più persone le popolano più le opportunità crescono, a partire da quelle lavorative; e più opportunità ci sono maggiore diventa il richiamo verso l’esterno.
Vengono in mente le immagini delle grandi migrazioni dal Sud al Nord Italia che hanno caratterizzato tutto il '900, ma anche le fughe dal Belpaese in direzioni lontane come l’America, le cui megalopoli, come New York e Los Angeles, offrivano prospettive nuove.
Un andamento che non si è certo fermato in tempi moderni — basti pensare alle migliaia di lavoratori o studenti fuori sede che saltano su un treno o un aereo, lasciano la propria terra d’origine e si spostano altrove. Storie che tutti conoscono intimamente, nei rari casi in cui non le si sia vissute in prima persona.
In Italia è ancora il Nord a fare da padrone: tolta Roma, che pur con i suoi difetti può contare su una forza attrattiva notevole, le destinazioni più comuni per studenti e lavoratori sono ancora il Veneto, il Piemonte, l’Emilia-Romagna. E poi la Lombardia, con Milano punta di diamante. Io ho passato qua gli ultimi anni, e pur venendo da Londra, che è una realtà assolutamente fuori scala, ho riscontrato forti somiglianze.
Entrambe le metropoli sono infatti uno specchio delle rispettive nazioni. E le analogie si riassumono bene nel medesimo concetto: se in Italia avviene qualcosa, avviene a Milano; lo stesso vale per il Regno Unito e la sua capitale. Pensate agli eventi, all’apertura di sedi delle multinazionali, a progetti innovativi su scala. I nomi sono sempre quelli.
Se si entrasse nello specifico emergerebbe che questa è, ovviamente, un’esagerazione: Milano rimane comunque solo uno dei principali snodi urbani nostrani. Ma resta il fatto che, insieme ad una manciata di altre città, è uno dei pochi luoghi in cui persone da tutte le altre zone d’Italia arrivano. Un posto dove si va perché ci sono le opportunità, perché “succedono cose”. O almeno, così è stato per lungo tempo.
Poi è arrivata la pandemia.
E sono accadute essenzialmente due cose: abbiamo iniziato a lavorare (o studiare) da casa, e qualcuno la casa l’ha proprio lasciata, per andare (o tornare) da un’altra parte.
Smart Working 1.0
Quello che abbiamo vissuto è senza ombra di dubbio uno dei più monumentali esperimenti sociali della storia. Poiché il flagello del virus ha, ahinoi, colpito l’intero pianeta quasi all’improvviso, ci siamo dovuti prodigare in massicci sforzi su scala internazionale per spostare fette enormi della forza lavoro su piattaforme digitali. Il passaggio è stato ruvido, ma nel complesso positivo: si è avuta dimostrazione del fatto che l’impensabile — o quantomeno ciò che prima sarebbe stato improponibile — non solo può funzionare, ma che in alcuni casi può addirittura portare all’aumento della produttività. Risultati che difficilmente ci si sarebbe aspettati.
Quando l’emergenza sanitaria sarà alle nostre spalle e la polvere inizierà a posarsi, sarà difficile che le cose tornino esattamente come prima (tengo la scuola fuori dal discorso — la didattica a distanza è un tappabuchi provvisorio che fa capo a tutt’altre dinamiche). Nel lavoro, avendo funzionato l’esperimento, sia pure parzialmente, la mentalità e l’approccio di alcune categorie faranno sì che la pratica continui, e anzi si formalizzi, si stabilizzi e si espanda. C’è già molta pressione perché ciò avvenga.
Altri dovranno giocoforza ripristinare il vecchio modus operandi, invece: non si può digitalizzare un taglio di capelli o una falegnameria. Nel mezzo, fra soluzioni ibride e conflitti di interesse (chi vuole andare in una direzione, chi in quella opposta), un caos generalizzato prenderà il sopravvento. È inevitabile; e con così tanti venti che soffiano in direzioni diverse, si diceva in apertura, capire quale sarà il modello corretto e dominante sarà un processo lungo e intricato; senza contare che differenti geografie risponderanno a correnti alternate.
Partiamo dunque proprio dalle grandi città, dalle Roma, Torino e Milano del post-Covid. Con un’alta concentrazione di lavoratori in settori come tecnologia, finanza e in generale servizi, è facile pensare che il lavoro agile coinvolgerà un numero non esiguo di persone. Ma come si muoveranno i datori di lavoro? Le aziende tech, ad esempio, stanno incentivando e facilitando lo smart working, e la loro leadership potrebbe scatenare un effetto domino sul resto. Ma verrà concesso di lavorare sempre da remoto o si adotterà un modello misto? Molti sembrano propendere verso quest’ultimo.
Che però dovrebbe funzionare come, esattamente? Facendo due o tre giorni a settimana a casa (o altrove) e il resto in ufficio? L’ipotesi, molto discussa, porta a due risultati buffi: se i giorni in ufficio sono a discrezione del singolo lavoratore, tutti avranno orari differenti, adattati per ognuno in base alle singole esigenze, e dunque in ufficio non ci sarà mai il team per intero. Quindi che senso avrebbe andarci da principio? Se invece si va tutti negli stessi giorni per mantenere un coordinamento, come si giustifica lo spazio vuoto in quelli rimanenti? Pensate ai costi di affitto e di mantenimento degli uffici progettati per ospitare migliaia di persone. In più: cosa succede a tutti i business intorno (come i ristoranti) che campano grazie a quel flusso di persone, ora drasticamente ridotto? Sono quesiti rognosi, e sarà importante vedere come le città si attrezzeranno per farvi fronte.
E se invece ci si muove del tutto in modalità remote, anche solo per determinati soggetti? Quale incentivo si avrà a pagare un sostanzioso affitto e sostenere il costo della vita di una città ricca se la presenza fisica non è richiesta? Esistono lavoratori che, potendo svolgere tutto da dietro a un computer, potrebbero decidere di fare le valigie ed andar via: un unbundling delle città. Lo hanno già fatto i circa 100mila “south workers” che hanno invertito la rotta e sono tornati a chiamare casa le loro natie Sicilia, Sardegna, Campania, Puglia — e insieme a loro un numero sorprendente di persone che le hanno scelte come mete pur non avendo legami famigliari.
Nei grandi numeri centomila persone non sono molte, ma se il trend dovesse prendere piede potrebbero verificarsi altri fenomeni. Raggiunta una determinata massa critica, quel capitale umano che svuota i centri urbani tradizionali e si redistribuisce in città più piccole potrebbe avere un effetto non di poco conto sulla vitalità di queste ultime. Sotto due punti di vista: uno che riguarda strettamente il lavoro, e uno che tiene più in considerazione l’aspetto sociale.
Vediamo il primo.
Una volta che “smart working” non coinciderà più a forza con “lavoro da casa”, sarà legittimo aspettarsi il ritorno di un desiderio di aggregazione. Ma, senza dover tornare al quartier generale — che potrebbe essere a un’ora di treno, addirittura in un’altra regione, o semplicemente mezzo vuoto — potrebbero subentrare degli spazi di co-working, adibiti ad ufficio con stanze private per chiamare senza essere disturbati e macchinette del caffè per ricreare la socialità.
Tali spazi dovrebbero immaginare di ospitare lavoratori da diverse aziende, magari organizzando le strutture per accomodare i bisogni di alcune categorie specifiche, e potrebbero così garantire un ambiente sempre popolato e in cui trovare stimoli. Un lavoratore flessibile potrebbe immaginare di alternare il lavoro da casa ad alcuni giorni o ore passati in questi spazi per sopperire alla mancanza di un’area appositamente dedicata al lavoro, senza però che la scelta del posto in cui vivere sia condizionata.
Idealmente, se più centri urbani iniziassero ad ospitare questo tipo di facility — e non solo, come sempre, le varie Roma/Torino/Milano/Bologna/etc. — sarebbe infatti più facile per lavoratori da tutto il Paese trovarne uno più vicino alla propria abitazione, renderlo una base operativa più o meno fissa, e poi farsi carico dell’occasionale viaggio in sede centrale per riunirsi fisicamente col team laddove necessario.
In un modello del genere, i datori di lavoro potrebbero anch’essi avvantaggiarsi, con la facoltà di assumere personale qualificato da ogni dove senza doversi preoccupare di gestire i trasferimenti; le aziende più grosse spendono decine di migliaia di dollari/euro/sterline l’anno per far sedere un dipendente su una sedia, soldi che nel prossimo futuro potrebbero essere gestiti diversamente, magari andando ad ottimizzare la produttività.
La seconda considerazione, di natura sociale, si costruisce su questa premessa: nel momento in cui il lavoro da remoto svincola la professione dall’area geografica, quali fattori entrano in gioco nella scelta di dove vivere? Come cambia — e come si ridefinisce — la qualità della vita? E soprattutto: il suddetto capitale umano che si sparpaglia e si ricolloca può contribuire a far ripartire i territori ospitanti che, per decenni, sono stati solo punti di partenza e mai di arrivo? Del resto, se quelle persone vivevano la loro socialità nelle città in cui si erano spostate per lavorare, se si (ri)trasferiscono altrove anche la socialità stessa verrà necessariamente redistribuita.
Si potrebbe ricreare l’effetto volano, insomma, ma stavolta invertendo la direzione storica di marcia. Un grande unbundling (e conseguente rebundling), retto da un’infrastruttura, quella di internet, che è di per sé slegata dai limiti fisici, e un popolo di nuovi nomadi digitali a cui è concesso programmare la propria vita su presupposti differenti.
Si tratta, è bene ripeterlo, soltanto di scenari potenziali, applicabili al giorno d’oggi solo ad una fetta ristretta di lavoratori. L’uso esteso del condizionale, immagino, lo ha reso abbastanza esplicito. Inoltre, andrebbero fatte altre considerazioni, come la volontà di un datore di lavoro di applicare certe norme, pure a fronte dell’opportunità; e poi tutto il discorso legato all’inquadramento fiscale, le retribuzioni, la burocrazia, etc.. Come detto: è complicato anche solo immaginarlo, figuriamoci unire concretamente i pezzi del puzzle.
Ma dare una risposta definitiva non è il punto. Quel che conta è tentare di capire in che direzione ci si muove.
Gli effetti del post-pandemia andranno avanti per tempo, e quello che le città hanno costruito nel corso di secoli non verrà buttato giù dall’oggi al domani. Non è però del tutto insensato immaginare che, nel lungo periodo, il crescente impiego delle pratiche di smart working combinato ad una lenta (ma costante?) rilocalizzazione delle persone possano fungere da spinta motrice, dare nuova linfa vitale a territori dimenticati ed assottigliare le differenze — in ogni caso malsane ed insostenibili — che esistono fra le grandi città ed il resto.
Rimane tuttavia un altro problema, e cioè che, come recita il sottotitolo, questo futuro viene immaginato in una chiave ancora troppo legata all’oggi, ossia uno smart working ancora grezzo, rudimentale, “1.0”; uno che ha sì permesso di digitalizzare interi lavori e modelli produttivi, ma fondamentalmente solo virtualizzando ciò che prima era analogico. Un lavoro agile di seconda generazione dovrebbe essere invece nativo digitale.
E l’ostacolo più ingombrante è legato alla presenza: una chiamata su Zoom può funzionare per un meeting, ma non è immaginabile come soluzione risolutiva per la collaborazione da remoto. Un ipotetico lavoratore in smart che passa buona parte della settimana in compagnia di altri professionisti in uno spazio di co-working può godere di quello spazio per vivere dove preferisce e supplire alla mancanza di compagnia, di creatività e di contatto umano nel posto di lavoro; ma quando si parla di mettere mano ai progetti la compresenza dei colleghi è fondamentale. Solo che, in questo scenario, anche i colleghi sono sparsi per il Paese, forse per il mondo.
Quindi?
Futuro prossimo remoto (?)
La digitalizzazione è un fenomeno di enorme portata che si sviluppa su un asse orizzontale vastissimo. Non tutto potrà essere digitalizzato al cento per cento, e non tutto ciò che viene digitalizzato perde completamente il legame fisico che ha con un determinato territorio, per vari motivi. Ma internet, per sua natura, è un decentralizzatore, un unbundler, al di là delle conseguenze del coronavirus — ed è dunque naturale tracciare un parallelo tra un mondo che stava comunque già diventando sempre più smaterializzato e indipendente da determinati centri geografici e l’effetto che questo ha tanto sul lavoro quanto sui fenomeni sociali di cui abbiamo discusso sopra.
C’è da riprendere la premessa iniziale: poiché si tratta di smuovere l’architettura sociale dalle fondamenta, i tempi sono dilatati e disomogenei, tali per cui sarà facile assistere a realtà parallele. Basta guardare proprio alle città, e a tutti i modi in cui si sono sviluppate a discapito delle aree non urbanizzate; o mettere a confronto una metropoli asiatica, che anche agli occhi degli occidentali sembra uscire dal futuro, con una città africana. O, più nello specifico, al cosiddetto digital divide (divario digitale), che studia la disomogeneità nell’adozione delle tecnologie. Il mondo viaggia a velocità differenti già oggi, e rimarrà così nel prossimo futuro.
Che però sia stato fattibile mettere in piedi lo smart working 1.0 non è un caso: anche solo quattro o cinque anni fa l’architettura del web avrebbe faticato a tenere in piedi il sistema. Oggi ci siamo riusciti, perché esiste un impianto alla base, un solido minimo comun denominatore. E i terminali mobili nelle nostre mani sono le chiavi di accesso che ci hanno permesso di mandare avanti il tutto più o meno a regime: smartphone, tablet, computer portatili. Lo smartphone in particolare è stato al centro del più significativo cambio di paradigma dell’era moderna — uno strumento ora in mano ad oltre quattro miliardi di persone che ha cambiato le economie del passato, ne ha create di nuove, e ha rimesso, volente o nolente, la tecnologia al centro del mondo; una rivoluzione senza mezzi termini, e il motivo per cui state leggendo queste parole.
Poiché lo smartphone è ormai arrivato a maturazione, il mondo tech è da anni alla ricerca della nuova piattaforma di svolta, del “prossimo smartphone”. Io non credo che ci sarà un unico punto di arrivo, soprattutto non uno fisico. Lo smartphone è stato un bundle: ha accorpato tutto, dal vecchio telefono alla macchina fotografica al portafogli, passando per il giornale, la sveglia, il lettore MP3, le mappe, etc.. È dunque facile che segua un unbundling: una serie di blocchi dislocati che, complessivamente, caratterizzeranno l’innovazione negli anni a venire — software intriso di machine learning, cloud, “internet delle cose”… e realtà aumentata (AR).
La realtà aumentata è la più facile da comprendere, perché è la più vicina al configurarsi come un diretto successore dello smartphone (o una sua plausibile estensione complementare, almeno all’inizio). Google, Microsoft, Apple, Facebook e Amazon stanno tutte lavorando alacremente sulla AR, con particolare enfasi sugli occhiali: un nuovo tipo di dispositivo che potremo inforcare come un paio di lenti qualunque, in grado di mappare la nostra posizione nello spazio circostante e sovrapporre al mondo reale uno strato di immagini ed altri elementi di informazione.
Il caso, però, vuole che questa sia anche la tecnologia che meglio si presta a risolvere l’idea di presenza di cui il lavoratore agile del domani avrà bisogno. Coincidenza fortunata? Forse. Ma un ottimo indicatore per osservare il mondo di domani, in cui il luogo dove stare sarà sempre più digitale, sebbene internet stesso assumerà nuove forme.
Vi ripropongo più sotto il video di presentazione di Microsoft Mesh della scorsa settimana, e cito l’intervista che Mark Zuckerberg ha dato nei giorni scorsi a The Information, in cui dice che il “teletrasporto digitale” è uno degli sviluppi cruciali della AR, con l’espresso obiettivo di riunire i lavoratori in ambienti virtuali sia per comunicare sia proprio per lavorare, attraverso avatar in grado di simulare la co-presenza con fedeltà. Non più soltanto banali videochiamate e altri programmi confinati agli angoli di uno schermo bidimensionale, dunque, ma un vero e proprio spazio di, beh, realtà aumentata, che ricrea pezzi dell’ambiente di lavoro su un piano misto fisico e virtuale.
Pensiamo magari ad una fiera o ad un evento, che oggi sono legati strettamente all’area geografica e alla struttura ospitante, e possono quindi essere goduti solo in presenza. Un evento “digitalizzato” come quelli a cui assistiamo oggi ci appare sempre come una versione monca dell’esperienza “vera” a cui siamo abituati, perché di fatto lo è — si tratta di un tentativo d’appendice di estendere la partecipazione alle persone bloccate fra le mura domestiche. Non esattamente “il futuro”.
Ma se con la AR fosse invece possibile reimmaginare da zero questi eventi, rendendoli 100% digitali (ossia qualcosa che, senza una tecnologia come la realtà aumentata, non potrebbero proprio esistere)? Si potrebbe raggiungere un pubblico più grande e realmente globale, per dirne una. Visitatori da tutto il mondo avrebbero modo di partecipare e godere dell’esperienza in pienezza, e la flessibilità del contenuto digitale proposto aiuterebbe a sbloccare le caratteristiche uniche della realtà aumentata.
Se non riuscite ad immaginare questo scenario nella vostra testa, è normale: oggi non esiste un foglio del come, perché le piattaforme di AR non sono ancora in mano agli sviluppatori. Ma per provare a capirne a fondo il potenziale realizzativo immaginate di prendere in mano un iPhone nel 2007 e visualizzare Uber, Airbnb, Instagram o Clubhouse. Sarebbero impensabili, e al tempo lo erano! Noi, ora, siamo di nuovo a quel punto lì, con un nuovo futuro nativamente digitale ancora tutto da inventare.
Potrebbe sembrarlo, ma non è fantascienza. Lo era una decina d’anni fa, quando precursori come Google Glass avevano tentato un passo più lungo della gamba. Oggi, invece, la AR non è più un esperimento o un side business per questi giganti. È uno dei punti focali dei team di ricerca e sviluppo, e darà presto il via ad una nuova epoca di competizione feroce e miglioramenti continui. Di più: i building block, per la gran parte, sono già qui. Ora si tratta di miniaturizzarli in un device economicamente viabile per il consumatore medio e permettere al nuovo ecosistema di spiccare il volo.
Ci vorrà qualche anno perché un prodotto maturo raggiunga le masse, e altrettanto perché le piattaforme di realtà aumentata inizino a diventare ubique e preponderanti come lo sono oggi gli smartphone. La cui evoluzione, però, è stata costante e inarrestabile in tempi tutto sommato brevi. Il modo in cui la AR si appresta a rimodellare come interagiamo col mondo, pur non essendo dietro l’angolo, è similmente non così lontano: il potenziale esiste e il lavoro da remoto del domani ne sarà influenzato in forme tanto radicali quanto, ad oggi, sconosciute.
Se volete immaginare il futuro del lavoro da remoto, è più utile pensare a qualcosa di questo tipo che non alle soluzioni raffazzonate e transitorie di oggi.
Prima di allora, il percorso sarà comunque tortuoso e pieno di conseguenze inattese. Mi auguro che il Covid diventi solo un triste ricordo ben prima. I cambiamenti di maggior impatto, nel periodo di transizione nel mezzo, saranno avvertiti solo da gruppi sparuti e forse non rilevanti numericamente; ma le correnti, lo abbiamo visto, si muovono sul lungo termine. Buttando l’occhio all’orizzonte non è affatto impensabile tracciare una linea che parte dalla pandemia, che potremmo riguardare indietro come un catalizzatore (non capita tutti i giorni un evento di questa portata, figuriamoci su scala mondiale), e un prossimo futuro che, in pieno spirito internet, è più decentralizzato (unbundled!) sia nello spazio virtuale, con lavori nativamente digitali di cui la AR è protagonista, sia in quello fisico, con meno dislivello fra città grandi e piccole.
È un excursus pieno di se e di ma, però una direzione comune esiste ed è possibile scorgerla sin da qui. Poi non lo so; diceva uno più bravo di me che di doman non c’è certezza. Se invece avete la palla di cristallo chiamatemi — va bene anche su Zoom.
Spero che abbiate trovato stimolante il pezzo di oggi. Se però siete anche interessati alla rubrica qua sotto, vi consiglio di fare un salto su Technicismi, l’ottima newsletter di Riccardo Bassetto. Ha un format fresco e leggero, pesca sempre notizie e topic stuzzicanti (con particolare attenzione alle startup) e in più c’è una chicca di storia della tecnologia ogni settimana. Andate ad iscrivervi cliccando qua!
Futuro Lesto:
Ne abbiamo parlato la settimana scorsa — anche il mondo del gaming non è immune al trasferimento su piattaforme sempre più slegate dalle console fisiche, ed è dunque destinato a trovare una nuova casa nel cloud. Laddove Google con Stadia (almeno per il momento) ha fallito, Microsoft è di gran lunga il player meglio posizionato a gestire la transizione. La compagnia ha lanciato da poco le nuove Xbox Series X/S, ma il vero bottino non starà nella vendita delle due scatole, bensì nell’abbonamento Game Pass, che è quanto di più vicino esista ad un vero e proprio Netflix dei videogiochi. Basta un pagamento mensile o annuale, una connessione ad internet (per adesso ancora tramite Xbox o Windows 10), e si ha subito l’accesso ad un folto parco titoli pronto per essere esplorato e goduto. Una proposizione ghiotta. Sul numero otto accennavo al fatto che Microsoft si trova un po’ nel mezzo: ha i muscoli per mettere in piedi una struttura cloud (che in fase beta già c’è), ma ancora latita nelle IP first party — non male come Google o Amazon, ma nemmeno ai livelli di Sony o Nintendo. Questa settimana, però, si è chiuso un affare pesante: l’Unione Europea ha approvato l’acquisizione di ZeniMax per $7,5 miliardi, introducendo il publisher (e la sussidiaria Bethesda) a casa Redmond. Con una sfilza di titoli importanti nel suo portafoglio, quali Fallout, Wolfenstein, The Elder Scrolls e Dishonored. Sia i capitoli già sul mercato sia quelli in uscita entreranno dritti nel catalogo di Game Pass, aumentandone notevolmente il valore. I team sotto Bethesda, in aggiunta ai ventidue (!) studios già parte del gruppo Xbox, dovrebbero essere in grado di colmare il gap creatosi nella scorsa generazione e rilanciare Microsoft sul podio.
Roblox è difficile da descrivere; in teoria sarebbe un videogioco, ma poiché è interamente composto solo da altri minigiochi — progettati da sviluppatori indipendenti o persone molto creative per un pubblico giovane — è più logico pensarlo come una piattaforma. La sua peculiarità è quella di aver creato un mondo persistente che vive solo all’interno della piattaforma, a cui è possibile accedere da (quasi) ovunque: smartphone Android e iOS, Xbox, PC, Mac, e gli headset per realtà virtuale Oculus Rift, HTC Vive e Valve Index. L’interoperabilità è completa, e l’universo virtuale esiste e prosegue che vi si entri o meno. In questo, Roblox somiglia più a un social network. È un “gioco” con caratteristiche nuove ed inedite, nonostante sia nato ben quindici anni fa. Non escludo che, prima o poi, sarà d’obbligo esaminarlo bene. Intanto, vista la recente esplosione di popolarità, la Roblox Corporation è stata quotata in borsa, con una valutazione che alla prima chiusura sfiorava i $45 miliardi — assai più di veterani come Take-Two Interactive ($19B), Unity ($28B), Ubisoft ($8B), Electronic Arts ($37,5B), Square Enix ($6,5B) e Zynga ($11B). Mica male.
Ricordate gli NFT due settimane fa? Fra gli altri, avevo citato il nome di Mike Winkelmann, in arte Beeple. Il disegnatore era già entrato nel giro degli NFT, mettendo privatamente in vendita alcuni dei suoi pezzi per cifre esorbitanti. Ciò a cui non era preparato, tuttavia, era la proposta di Christie’s — la storica casa ha chiesto a Winkelmann di mettere in vendita un pezzo speciale in esclusiva, per marcare la vendita ufficiale del primo NFT sui canali tradizionali. Chiamata “The First 5000 Days”, l’immagine è letteralmente un collage dei primi cinquemila artefatti che Beeple ha iniziato a produrre quotidianamente per la sua serie “Everydays” nel lontano 2007. Pochi minuti prima che le offerte chiudessero, qualcuno aveva messo sul tavolo $25 milioni. Allo scadere del tempo, tuttavia, la puntata decisiva (per il momento anonima) è entrata graziosamente con $69 milioni di bigliettoni virtuali, portandosi l’ambito JPG a casa — o quantomeno nella blockchain. Per la cronaca, esistono solo due artisti viventi (entrambi non cripto-artisti) che con un’asta hanno guadagnato di più. Se non potete crederci: tranquilli, non siete i soli. Ma che prezzo può mai avere un pezzo di storia?