Il numero ventidue, due settimane fa, si chiudeva così:
Se penso proprio all’importanza del mare nella Storia, mi vengono in mente le fortune dei Fenici, di Venezia, dell’Impero Britannico. Che, senza entrare nel merito, hanno preso consapevolezza dei propri limiti, e sfruttato degli strumenti (banalmente: le navi) per superare gli ostacoli posti di fronte a loro, con risultati straordinari e duraturi; non da ultimo l’incontro tra popoli. Non si è arrivati nelle Americhe a nuoto.
Oggi è un nuovo mare quello che si para davanti ai nostri occhi; il mare del web, la cui navigazione ci sta però traendo in inganno. La natura di un terreno senza limiti e raggiungibile in ogni suo punto è allettante, e la tecnologia è l’unico strumento che abbiamo per orientarci, farci strada e coglierne gli innumerevoli aspetti positivi.
Proviamo però a ricordarci che siamo esseri umani, non pesci; e che a scambiare la nave (il computer) col capitano (noi), corriamo solo il rischio di affogare.
La metafora del mare viene da sé — parliamo del web come qualcosa di navigabile, del resto. Affogare, dunque, è una naturale (seppur triste) conseguenza, alla quale tuttavia io non sono giunto tramite un ragionamento organico, bensì tuffandomi in un celebre pezzo su Wired ormai oltre cinque anni fa.
L’articolo titola “stiamo affogando nel contenuto”; un’immagine che sin da allora non ha mai smesso di albergare nella mia testa. I princìpi cardine alla base di quello scritto, infatti, non solo hanno retto, ma nel tempo si sono rivelati essere una lettura della realtà ancor più brutalmente limpida di quanto non lo fossero stati all’inizio.
Stiamo affogando.
La soluzione data, però, è rimasta circoscritta, poiché ancorata alla limitata analisi contemporanea, che dunque non offre una chiave di lettura utile per l’oggi. Gli algoritmi di raccomandazione esistono e funzionano anche piuttosto bene, ma non costituiscono affatto un modo per risolvere il problema — né tantomeno dare uno sguardo al domani, che è quanto vorrei provare a fare oggi qui.
Qualcuno potrebbe pensare che la soluzione sia tornare a riva, ossia, fuor di metafora, spegnere il mondo digitale per sempre. Forse molti problemi si risolverebbero, ma la fattibilità è pressappoco la stessa che avrebbe l’ostentare come deus ex machina un effettivo prosciugamento delle acque.
Quindi?
Se consideriamo gli anni 2000 come il primo decennio dell’internet per i consumatori, possiamo identificarne come aspetto chiave la sperimentazione. Il primo web è stato un po’ come la più importante startup della Storia: un paradigma completamente nuovo, alla stregua della scoperta del fuoco o dell’invenzione della ruota. Con la piccola differenza che internet non è mai stato fine a se stesso, bensì l’archetipo di una piattaforma, un network (inter+network, appunto), su cui quel paradigma avrebbe preso forme virtualmente infinite — tuttora, non a caso, in fase di evoluzione. È stata un’era di digitalizzazione del mondo reale, per certi versi, ma anche quella in cui si sono gettate le basi per l’infrastruttura del domani, ovvero dell’oggi.
Gli anni ‘10 hanno poi dato una forma più standardizzata all’internet che conosciamo, con l’arrivo delle app da una parte e quello degli aggregatori — come Facebook e Google — dall’altra. In particolare, pensando al mondo dei media e alla loro distribuzione, si è passati dai gatekeeper tradizionali, come la televisione e i giornali (che con i loro monopoli controllavano l’offerta), a piattaforme aperte a tutti e di ordini di grandezza infinitamente superiori, il cui principale vantaggio era (ed è) il controllo della domanda.
Pensare di distribuire un contenuto autonomamente, prima di internet, era proibitivo se non del tutto impossibile in assenza di meccanismi di distribuzione veicolati e controllati dai noti piantoni. Internet ha sradicato tale ordinamento, permettendo a chiunque di aprire una pagina web e pubblicare gratuitamente. Poi, per sopperire alla mancanza di un network da un lato e di tool facili ed adeguati per la creazione e la pubblicazione dall’altro, i nuovi media sono diventati social. Poter pubblicare era alla portata di tutti, ma si è d’un tratto aperta la possibilità di raggiungere concretamente un pubblico vasto. Per farlo, però, è diventato necessario passare attraverso il vaglio di detti aggregatori; con pratiche di SEO (tra le altre cose) per Google, e con la gestione di profili e pagine ben curate e popolate da follower attivi per le proprietà di Facebook.
Si è fatto un passo avanti, certo; pur dovendo cavalcare sulle spalle di capricciosi giganti, milioni di individui hanno effettivamente avuto accesso a strumenti potenti e gratuiti che hanno permesso la pubblicazione (e quindi la fruizione) di una quantità infinita di nuovo contenuto. Facebook, Twitter, YouTube; e poi Instagram, TikTok, Twitch. Il problema del terzo decennio, infatti, è proprio questo: la quantità infinita di contenuto, all’interno del quale stiamo affogando.
Chiunque viva la maggior parte della propria vita su internet — cioè, pian piano, una fetta di popolazione sempre più vicina alla totalità assoluta — conosce bene la sensazione schiacciante alla quale ci sottoponiamo ogni giorno, ossia il dualismo tra feed stracolmi di contenuto (interessante o meno) e span di attenzione in drastico calo. C’è sempre più roba nel nostro piatto, ma la nostra capacità di masticare (per non parlare di quella di ingerire e digerire) è rimasta la medesima.
Un algoritmo di raccomandazione che ci suggerisce automaticamente a cosa dedicare il nostro tempo, per quanto efficace, non potrà essere sufficiente. Le 24 ore del giorno non cambieranno. Soprattutto, il nostro cervello manterrà una capacità limite, oltre la quale l’assorbimento diventa impossibile. E se questo livello di saturazione è già così frequente tra i più giovani — che negli anni ‘10, con internet, hanno vissuto il corrispettivo di cinquanta vite dai ritmi precedenti — come possiamo pensare di non affogare, ben sapendo che le porte del web non solo non si chiuderanno, ma saranno anzi ancor più spalancate?
Su questo sono un po’ pessimista. Temo che la generale mancanza di presa di coscienza (e di conoscenza) porterà molti all’inevitabile affogamento. In quali forme ancora non lo so, ma certamente il burnout e la depressione di cui si parlava nel pezzo del Times ripreso due settimane fa sono manifestazioni piuttosto concrete, e temo non le peggiori.
La visione più positiva, che paradossalmente (?) passa dalla tecnologia stessa, è quella di non lasciarsi trascinare dalla corrente e riprendere contezza del fatto che il web si può navigare, a patto di trattarlo come un mezzo e non come un fine.
E come si traduce ciò, in pratica?
Molto banalmente: dicendo no. L’illusione che il mare di internet, sconfinato com’è, possa essere gestito a misura d’uomo è, appunto, un’illusione. Dire di no significa dunque ridimensionare non soltanto la propria dieta tecnologica in termini di tempo, ma anche di “spazio”, andando a tracciare dei confini; cosa molto difficile quando letteralmente qualsiasi cosa è a solo un click di distanza, ma l’unica soluzione realmente viabile.
Oggi siamo inghiottiti da richiami continui che, facendo leva sulla nostra innata curiosità, ci portano a saltare da un punto all’altro senza soluzione di continuità. Ci nutriamo, come cantava sardonico Bo Burnham nella meravigliosa traccia che vi avevo lasciato in coda al n.22, di un po’ di tutto, costantemente. Il nostro cervello è bombardato, e ogni giorno aggiungiamo qualcosa — un nuovo follow, un nuovo sito, una nuova iscrizione.
Il “dire di no” parte dalla piena consapevolezza che questo tentativo di fagocitare un qualcosa più grande di noi è tracotante, se non autodistruttivo. Alcune cose, quindi, non le si potrà vedere, sentire, leggere: dobbiamo imparare a respingere la FOMO1, e ripetere a noi stessi che va bene così. Deve avvenire una ristrutturazione radicale, per cui alla continua, spasmodica ricerca del raggiungimento di un orizzonte — che, appunto, è solo ad un click di distanza — deve sostituirsi un’immersione nelle acque del web più ristretta nel raggio d’azione, ma più profonda e duratura.
Più facile a dirsi che a farsi. Vero. Ma questo sarà un trend che prenderà vita non tanto grazie ad una velleitaria ed improvvisa presa di coscienza collettiva, ma per via dell’offerta. Dall’altra parte della medaglia della disponibilità illimitata di contenuto c’è infatti una schiera sempre più folta di creator che, sotto i padroni di oggi, per vincere la partita devono sottostare alle regole folli della tirannia degli algoritmi: maggiore efficienza, numeri sempre più grandi, contenuto ottimizzato e come se piovesse.
Come abbiamo già discusso, un percorso insostenibile poiché a somma zero: continuerà ad esserci qualche meteora in mezzo a pochi vincitori, ma saranno questi ad ammassare tutti i seguaci sulle tematiche generali. È già così. Laddove c’è l’intenzione di lavorare seriamente, pensare di aprire una pagina Instagram sul travel o un account TikTok per ballare (due esempi fra i tanti), oggi, è una perdita di tempo.
C’è già tutto, tutto di tutto, e aggiungere un’altra goccia all’oceano già traboccante non servirà a nulla. Perciò i vinti o i fuori tempo, per non affogare a loro volta, avranno un’unica via, che è quella della ultraspecializzazione.
Anziché tentare di raggiungere un numero spropositato di seguaci — così da convertire le loro visualizzazioni in pubblicità — il creator di domani sarà chiamato a targetizzare col proprio contenuto una nicchia ristretta, specifica e ben inquadrata di utenti, ai quali servire un prodotto unico ed originale che rispecchi i loro interessi. Senza curarsi del fatto che la fetta di persone non interessate sarà esponenzialmente più grande: non importa, ed è giusto così.
Sarà invece d’obbligo creare una community più vivace ed ingaggiata, che a fronte della spesa si veda restituire non solo il core product, qualunque forma questo abbia, ma un valore aggiunto dato dal rapporto con il creator e con gli altri appassionati appartenenti alla stessa cerchia.
Questa non è fantascienza, ma la parte sana della creator economy che già adesso sta funzionando — a dimostrazione del fatto che la tecnologia, come mezzo, è qualcosa di realmente rivoluzionario e straordinario. Senza muovermi lontano, penso a creator che, qui su Substack, hanno newsletter che parlano di argomenti apparentemente assurdi o di scarso interesse, come illustrazioni sugli animali (Wild Life), la relazione tra scienza e storytelling (Science of Fiction), cibo e stregoneria (!) (Kitchen Witch), o magari piatti di pesce (Little Fish).
Penserete: “Ma chi la legge ‘sta roba?”, e la risposta è: quelle poche centinaia o migliaia di persone (paganti!) necessarie per sostenere l’ecosistema. La celebre teoria del vecchio editor di Wired Kevin Kelly afferma che, per trasformare una “creation” in un lavoro stabile, servono solo, circa, un migliaio di fan.
Ora, con strumenti come Substack e Patreon, i creator dietro questi progetti hanno la libertà di pubblicare con assoluta semplicità e immediatezza un contenuto (internet 1.0) e la possibilità di promuoverlo attraverso piattaforme social (internet 2.0), ma non devono più sottostare alle logiche di scala delle seconde per sopravvivere, poiché il nuovo elemento fondante di internet, la facilità di monetizzazione2, permette a chiunque di circumnavigare le richieste più scomode degli aggregatori e stabilire un contatto diretto con i propri fan — non si chiede di essere seguiti su una piattaforma, come Facebook, che poi ospita anche il contenuto. Il contenuto è del creator, al di là della piattaforma; e lo stesso vale per il rapporto con il follower3.
Un rapporto che, oltre ad essere realmente più a misura d’uomo, può trasformarsi nel veicolo per l’internet di cui parlavamo più su, meno utopico di quanto si possa immaginare. Un internet che non fa leva sulla propria massa per omologare tutti i suoi utenti, filtrati dall’ennesima pagina social standardizzata e buttati nel tritacarne della pubblicità. Ma uno che utilizza il suo spazio sconfinato e però malleabile per rendere economicamente possibile la creazione di numerosissimi microcosmi come quelli descritti sopra, che sino a poco tempo fa non avrebbero mai avuto modo nemmeno di esistere; figuriamoci di prosperare.
Restano due problemi fondamentali, ovvero l’incontro e le tasse occulte.
L’incontro tra creator e fan continuerà ad avvenire, presumibilmente, ancora sui social; sebbene il contenuto stesso si sposti via da Facebook o Instagram, quei canali resteranno indispensabili per fare in modo che le nuove realtà vengano scoperte da principio — gli effetti network sono reali, e sarebbe comunque sciocco buttar via proprio quel poco che di veramente buono c’è. Cambieranno anche i sistemi di discovery, con tutta probabilità, ma per adesso i tool che abbiamo hanno ancora del potenziale eccezionale per evitare che le nuove piccole bolle restino sì a galla, ma isolate.
Le tasse occulte, come ben sa chi legge queste pagine, riguardano le ingenti fee che piattaforme come l’App Store di Apple si mangiano ogni qual volta avviene una transazione digitale. Abbiamo visto il caso di Fanhouse sempre due settimane fa e, sebbene la disputa legale tra Apple e Epic (come anche tra Apple e Spotify) porterà degli indubbi cambiamenti, per adesso l’unica soluzione praticabile è quella di aggirare gli store digitali e completare i pagamenti sull’open web.
Due strade non straordinariamente comode, ma neanche sbarrate.
Un internet più umano e sostenibile è non solo possibile, ma in parte già una realtà. Ne è il cuore pulsante un futuro della content creation e dei media (e non, attenzione, del giornalismo tout court) disintermediato. Che, un po’ per spirito imprenditoriale dei singoli e un po’ per forza di cose4, riallineerà la composizione del web su un assetto meno ipertrofico e più granulare e diretto, reintroducendo una geografia che i nostri corpi (e le nostre menti) sono in grado di gestire.
Cerchiamo solo di imparare a navigare per tempo.
Fear Of Missing Out, la paura di perdersi qualcosa che ci spinge a dire sempre sì o a partecipare a tutto, anche a ciò che in realtà non ci interessa, pur di non essere “tagliati fuori”.
E anche la relativa disinvoltura con cui la gente compra di tutto online; specialmente dopo la pandemia.
Come scrivo sempre: voi leggete me, Futuro Lento, non Substack. La mia pagina di Instagram o un mio eventuale profilo Facebook, invece, sarebbero molto più nelle mani di Facebook stessa.
Ci sarebbe anche una questione più tecnica e legale, ma lasciamo perdere.