Futuro Lento 🎲 #22
Aprire e chiudere e sviluppatori e creator, nell'insostenibile era dell'arte su misura
Nel flusso magmatico che vorrei caratterizzasse Futuro Lento, l’idea di una struttura predefinita non mi piace. Ho voluto mantenere una versione più corposa agli inizi, per poi ridurla ed asciugarla. Ma nel produrre il contenuto settimana dopo settimana, ho notato una cosa che mi turba: ho iniziato a piegare i miei pensieri alla forma.
È indispensabile non disorientare il lettore, lo capisco. Allo stesso tempo, il carattere eterogeneo e la rilevanza mutevole dei temi (e, soprattutto, cosa ho io da aggiungere) mi impediscono di trattarli uniformemente; è necessaria una certa libertà, sia pure controllata.
Preferisco dunque cambiare il format anche in modo frequente, ma fare in modo che ad ogni argomento venga dato il giusto spazio — senza allungare inutilmente il brodo, senza tagliare il necessario, e possibilmente dando sbocco a quanti più spunti di riflessione possibile.
La natura più “monografica” degli ultimi numeri mi ha impedito di fare ciò. Oggi, perciò, dedico la newsletter a tre punti distinti, ma tento di collegarli nella speranza che l’obiettivo settimanale si possa considerare raggiunto, tanto da me quanto da voi.
I commenti, come sempre, sono aperti (e ben graditi).
Microsoft, l’unbundling di Xbox, le opportunità
La scorsa settimana abbiamo affrontato il tema PlayStation, sul cui futuro Sony ha un’immagine abbastanza precisa: la prossima generazione sarà un replay della precedente, sebbene rifinito ed ammodernato. Ciò significa investire molto sul contenuto, anche al di là dei confini della console.
Microsoft, grande sconfitta della scorsa gen, ha invece molto da recuperare. Ma, come abbiamo detto più volte, è anche l’unica compagnia che gode non solo di un brand forte, riconosciuto e saldamente radicato nel mondo del gaming — Xbox — ma anche di un’immensità di risorse strutturali che esulano dai videogame; stiamo parlando di uno dei soliti cinque del Big Tech, del resto.
Cosa vuol dire questo?
Da un lato la forza economica, che ha permesso alla casa di Redmond di fare incetta di studios da incorporare nel suo portafoglio; 22, per l’esattezza, a cui si aggiunge l’intero ecosistema di ZeniMax. Ciò dovrebbe aiutare Microsoft nel colmare l’immenso gap creatosi negli anni con Sony, con l’introduzione di nuove intellectual properties in esclusiva per le sue piattaforme1.
Dall’altro c’è la definizione stessa di queste “piattaforme”. L’ultimo annuncio, dato in settimana, dipinge un quadro piuttosto chiaro: a Microsoft non interessa su quale piattaforma si giochi — al centro c’è il giocatore, quindi vanno tutte bene. Purché a fare da canale di distribuzione sia il suo Game Pass, il famoso “Netflix dei videogiochi”.
C’è grande ambizione. L’idea è che i consumatori non acquistino necessariamente il nuovo hardware, che pure esiste ed è indubbiamente competitivo2, ma un abbonamento mensile o annuale al loro servizio, che permette di accedere ad un vasto catalogo di titoli, in costante rotazione ed aggiornamento, e giocare ovunque.
Su questo “ovunque” ruota la news citata sopra: il Game Pass, sino ad ora, eliminava soltanto la necessità di comprare o scaricare singolarmente i giochi, ma richiedeva pur sempre una Xbox su cui farli partire. Il prossimo passo è un vero e proprio unbundling, che grazie al cloud vuole portare i titoli nel Game Pass su ogni schermo. Per Microsoft, d’ora in avanti, non farà testo una console venduta in più, ma un nuovo abbonato.
Titoli distribuiti non solo su console e PC, dunque, ma anche smartphone, smart TV e, crucialmente, web browser e stick HDMI dedicate (alla stregua di un Chromecast3), per allargare a dismisura il bacino d’utenza. Un solo account, gestito interamente in cloud, ed interfacce multiple per fruire del software al “bordo” — ossia da ogni dispositivo, con la stessa semplicità con cui si accede agli streaming di Netflix o Spotify4.
Microsoft è l’unica azienda in grado di poter costruire e sovrintendere interamente da sé alla complessa infrastruttura necessaria per rendere questa visione una realtà. Ha le console, il sistema operativo (OS) per PC, la distribuzione hardware, il software, il cloud5.
E soprattutto il cuore di Xbox, gli sviluppatori, quelli che creano il famoso “content”: dai giganteschi studios first party fino alla marea di indie developer che costellano il cielo di Xbox, e che con l’apertura dei nuovi canali avranno ulteriori incentivi a lavorare per (con!) Microsoft. Al netto di riuscire a mettere realmente a frutto lo sforzo dei nuovi Microsoft Game Studios, infatti, l’azienda ha tutte le carte in regola per smarcarsi, giocare la propria partita e diversificare ulteriormente l’offerta per tutti, gamer e non.
L’impegno c’è ed è molto chiaro, così com’è piuttosto limpido il goal finale. Adesso, con le mosse dei prossimi giorni, settimane e mesi, si andranno a definire anche i singoli passi del cammino. Ma il futuro dell’intrattenimento passerà da qui.
Apple, la fortificazione, le vittime
In settimana si è anche tenuto il WWDC di Apple. La conferenza annuale per sviluppatori, ancora una volta in formato digitale, ha preso piede immediatamente dopo la chiusura della prima fase giudiziaria che ha visto l’azienda misurarsi in tribunale proprio contro alcuni dei developer, capitanati da Epic Games, a cui l’evento è indirizzato.
La cosa più sorprendente, a mio giudizio, è stata l’atteggiamento; forte di una comprensibile convinzione che la disputa legale possa avere esito positivo, il gigante di Cupertino sembra aver esacerbato ulteriormente la propria posizione, scavando ancora più in profondità il fossato che la separa da tutto il resto, partner o competitor che siano.
Se quello di Microsoft con Xbox è stato un esempio da manuale di unbundling dalla vocazione aperturista e cooperativa nei confronti degli sviluppatori — al punto da negare che, perché la sua strategia abbia successo, debbano perdere gli altri — Apple ha accelerato in direzione opposta, fortificando le mura del proprio castello e piantando la propria bandiera in più e più parti che, sino a poco tempo fa, erano invece appannaggio proprio degli stessi sviluppatori (ovvero di terze parti).
I developer sono spesso la categoria più ignorata, pur essendo a conti fatti l’anello fondamentale che collega le altre due, ovvero chi fornisce e distribuisce la piattaforma (in questo caso Apple, sia nell’hardware sia nel software) e gli utenti finali. Pensateci: comprereste comunque un iPhone se non ci fossero anche solo le quattro o cinque app che utilizzate di più?
La risposta è dentro ognuno di noi, ed è la stessa che condivide anche Apple. Che non a caso sta decidendo di imporsi anche in quell’ambito, andando a rinforzare un feedback loop che stringe il rapporto tra lei i consumatori (a conti fatti fagocitandoli nell’ecosistema) e schiacciando con regole vieppiù stringenti, se non del tutto assurde, proprio quegli sviluppatori che hanno permesso ad iOS di diventare il colosso che è.
Quel che è peggio, purtroppo, è che questo feedback loop ha un aspetto molto sbrilluccicante quando visto da fuori, che prende il nome di privacy e convenienza.
Come funziona? Si pensi alle app meteo. Per supplire alla mediocrità dell’app predefinita di iOS, nel corso degli anni diversi sviluppatori si sono ingegnati per costruire delle alternative. Una giostra che ha dato vita a prodotti eccellenti, come ad esempio Carrot Weather e Dark Sky. Lo scorso anno, tuttavia, quest’ultima è stata acquistata da Apple, che ora ne integrerà alcune delle feature principali in iOS 15 per poi far chiudere i battenti al servizio originale. Con il risultato scontato che le altre app meteo non riusciranno a sopravvivere, e con esse gli sviluppatori alle loro spalle6.
Ma non è solo il meteo: c’è anche Apple Music. Apple Podcasts. Apple TV ed Apple TV+. Apple News. Apple Mail. iCloud. Etc., etc.. — servizi per la maggior parte scorporati dall’esperienza originale di iPhone, sviluppati sotto forma di app da terze parti (per le quali magari l’app costituisce il prodotto finale dell’intera compagnia) e man mano aggiunti come feature. Un progressivo bundling che, a conti fatti, incenerisce interi business con uno schiocco di dita.
Tale sistema di integrazione, che è il principio cardine su cui si basa la quasi totalità del modello imprenditoriale di Apple, è stato prepotentemente rimpolpato in iOS 15, l’ultima versione del sistema operativo presentata durante il keynote del WWDC. E il modo in cui questo ulteriore strato viene formandosi ha a che fare non solo con la presenza di app che Apple sviluppa internamente ed impone come default, ma di pezzi delle stesse che l’azienda inserisce nell’OS in modi negati agli sviluppatori terzi.
La nuova feature “Shared with you”, ad esempio, mostra dei prompt con contenuto rilevante all’interno di Messages, ma viene tutto pescato da Apple News, Apple Music e Podcasts, Safari o Apple TV+. Le nuove “Photos Memories” attingono ad Apple Music per selezionare i brani che più possono piacere all’utente; Siri si presta in esclusiva alle AirPods, e la feature Quick Note permette all’app Note di apparire come un bloc-notes in varie parti del sistema operativo, laddove tutte le altre app di note sono costrette a rimanere nei propri confini.
Apple non solo applica un tracciamento capillare dei dati degli utenti nelle proprie app — quello che de facto ha impedito alle terze parti — ma si avvantaggia dell’integrazione tra i propri servizi per migliorare l’esperienza utente; non sulla base del merito (app migliori della concorrenza), ma semplicemente escludendo a priori gli altri player.
Vorreste avere le nuove feature di Siri con le vostre cuffie Bose, o magari usare Google Assistant con le AirPods? Nope. Vi piacerebbe che “Shared with you” mostrasse contenuto pescato da Instagram, Pinterest o Reddit? Forget it. Magari almeno creare Photos Memories con le canzoni prese da Spotify? No dice.
Quella di Apple è una scelta, che a fronte dell’immensa opportunità offerta agli sviluppatori (che pure non va liquidata come se niente fosse) ne sfrutta enormemente il lavoro. Come tutte le scelte, è frutto di un compromesso — e in questo caso a rimetterci sono gli sviluppatori, che infatti sono in rivolta. Ma, sebbene distorta — ancor più adesso che l’integrazione tra i vari servizi Apple, con iOS 15, si è cementificata — questa visione è legittima (per adesso) e concede il beneficio del dubbio, sicché il vantaggio finale, almeno per gli utenti, è palese: privacy e convenienza, appunto.
Ma cosa accade quando la posizione diventa dominante al punto da sfociare in abuso? Un esempio lampante, anch’esso scoppiato di recente, è quello delle app dedicate alla cosiddetta creator economy.
L’episodio è quello di Fanhouse, la cui co-creatice, Jasmine Rice, ha pubblicato un thread presto esploso su Twitter:
La storia è tristemente nota: Fanhouse permette a chiunque di creare un account, proporre del contenuto ai fan, e impostare dei prezzi per farli abbonare. Apple, però, vuole una fetta dei ricavi (il famoso 30%), e ha mandato una lettera minatoria a Fanhouse dicendo che le opzioni sono due: introdurre gli abbonamenti nell’app (come in-app purchase, le microtransazioni interne alle app, che vengono tassate) o essere cacciati dallo store7.
Un po’ di cruda matematica per capire la situazione.
Immaginiamo che io sia fan di Maria Rossi, che crea video a tema architettura su YouTube. Maria è iscritta a Fanhouse, dove chiede ai suoi subscriber di pagare 100€ l’anno per finanziare la sua attività (ricerca, shooting, montaggio, interviste, etc.).
Io, come centinaia di milioni di utenti, scarico l’app di Fanhouse, vado sul profilo di Maria, e dopo aver premuto sul tasto “Iscriviti” effettuo il mio pagamento. Ora: tolto il fatto che Maria non saprà mai chi sono, perché il rapporto della transazione e la logistica dell’abbonamento sono gestite interamente da Apple8, che fine fanno i miei 100€?
Il 10%, 10€, vanno a Fanhouse, che usa quei fondi per tenere in piedi la baracca. E poi c’è Apple, che senza un’apparente giustificazione si mangia altri 30€ (il 30% del totale). Un’enormità; a Maria, infatti, resta poco più della metà della somma iniziale. Ora, pensate se quei soldi fossero uno stipendio — e per molti lo sono — fate una proporzione in scala e immaginate quanto ingombrante sia quella fetta del 30%.
La stessa Rice lo dice molto chiaramente nel thread:
“Ad oggi ho guadagnato oltre $20,000 come creator su Fanhouse. Il 30% è $6,000. Per me vuol dire mesi di affitto, le spese mediche per mia madre, la retta universitaria di mio fratello. Quando Apple insiste nel richiedere il 30% di ogni transazione, prende i soldi dalle tasche di chi ne ha più bisogno.”
Apple ha fatturato €275 miliardi di dollari nel 2020; e anche se una parte consistente di quei ricavi viene proprio dalle centinaia di migliaia di Jasmine che foraggiano il sistema, che ciò sia intrinsecamente giusto sol perché Apple è il gestore della piattaforma è quantomeno discutibile9.
Ma c’è dell’altro. Come chiarisce Rice nel thread, ad Apple è stata fatta una controproposta: prendere il 30% non del totale, ma del 10% che resta in tasca a Fanhouse, in modo tale che, nell’esempio sopra, Fanhouse tratterrebbe 7€, Apple 3€, e alla nostra cara Maria andrebbe il restante 90%; che farebbe più felice me, sapendo che i soldi vanno direttamente a lei, e soprattutto lei stessa, che può vedere il proprio lavoro riconosciuto e finanziato.
Ma Apple ha detto no.
Ad andarci di mezzo, come sempre, sono i più piccoli, come Jasmine Rice e la fantomatica Maria. A fronte di una tecnologia che lo permetterebbe — app come Fanhouse, che sono un punto d’incontro tra creator e fan — queste logiche economiche spengono prematuramente la vita ad innumerevoli piccoli o potenziali creator, che non hanno modo di mettersi sul mercato10.
Essere paladini della privacy e della convenienza va benissimo, perché i benefici per gli utenti finali sono immediati e tangibili. Ma non verniciamo con una patina morale ciò che è un semplice, sporco ritorno economico11.
L’insostenibilità dell’”arte su misura”
È proprio sulla creator economy che vorrei chiudere il pezzo di oggi.
L’idea alla base è una per la quale sono molto ottimista: la tecnologia si mette al servizio di ogni forma di creator, indipendentemente dal tipo di contenuto che viene creato — video, arte, corsi di yoga, podcast, newsletter, qualsiasi cosa — e favorisce la disintermediazione tra chi crea e chi fruisce.
Nel suo piccolo, Futuro Lento porta questa gioia anche a me, proprio perché Substack si leva di mezzo (voi leggete Futuro Lento, non Substack) e mi permette di “guardare in faccia” i miei lettori.
Ma tolte le dinamiche economiche di cui abbiamo appena discusso, che riguardano solo una fetta di creator, c’è un problema molto più grande alla base. Uno che, ironicamente, l’esistenza stessa di Futuro Lento prova ad affrontare.
Ho aperto questo numero lamentandomi del fatto che aderire ad una struttura rischia di mettere delle briglie al mio pensiero, al punto da comprometterne il contenuto finale.
Una struttura rigida, in teoria, funziona perché si imposta su coordinate precise: una determinata lunghezza e composizione, una cadenza periodica definita, uno stile ben inquadrato. In giusta misura, come detto, si tratta di pratiche corrette, che permettono anche a me di viaggiare su delle linee guida.
Ma su internet c’è un passo in più. Tanto più quelle linee guida diventano binari, infatti, tanto più è facile inquadrare il contenuto. Catalogarlo, analizzarlo, trasformarlo in dati da buttare in pasto agli algoritmi; che a loro volta si raffinano, migliorano, e trasformano quei bit eterei in dati precisi, raffinati appunto, che governano il mondo caotico ed eterogeneo del web.
Pubblicare ad una certa ora, usare determinate parole, cogliere i trend. Stare sul pezzo. Sono queste le parole d’ordine.
Un meccanismo che, tuttavia, dimentica che dietro a quei bit e a quel contenuto ci sono degli esseri umani. Di più: persone che si definiscono “creator”, che creano, e sarebbero dunque caratterizzate da un qualcosa, l’estro creativo, che non può essere ingabbiato da un algoritmo. Certo, come dicevamo, le linee guida aiutano. Ma la velocità di internet fa sì che il passaggio da linee guida a binari sia non solo repentino, ma obbligato — pena l’essere sputati fuori dal detto algoritmo, che immediatamente rileva l’inefficienza.
Immaginate di essere su una pista da sci, in discesa libera, tra l’aria fresca e i raggi di sole. Un momento magico per chiunque abbia avuto la fortuna di viverne l’esperienza. Ora provate a pensare di doverlo fare ogni giorno, sempre sulla stessa pista, sempre meglio. Vi sembra assurdo? Andate a leggere quest’ultimo reportage del New York Times, che racconta del burnout a cui sono andati incontro celebri tiktoker losangelini.
Ragazzi, appena ventenni, che hanno trovato fortuna in un mezzo che permettesse loro di esprimere nei modi più vari la creatività. Ma che poi hanno presto capito che la velocità imposta dalla fame atavica dell’algoritmo-tritacarne non è compatibile neanche con l’inesauribile energia della loro giovane età — al punto di ritrovarsi vuoti, alienati, e per giunta clinicamente depressi o mentalmente provati.
Quando il contenitore supera la linea di demarcazione e diventa non più l’arbitro ma l’implacabile comandante (duce?) del contenuto, si verifica un rovesciamento che non lascia scampo12. Steve Jobs, in una celebre intervista già ripresa tra queste pagine, diceva che il computer è come “una bicicletta per la mente”; ora ci stiamo sfibrando nel tentativo di riprogrammare la mente stessa come una bicicletta — o meglio, come un bit supersonico. Non si tratta più di pensare a cosa registrare, dicono i ragazzi intervistati dal Times, ma di “fare il video”. Sfornare nuovo contenuto. Sempre, ogni giorno. Piegare i pensieri alla forma. Arte su misura, costi quel che costi.
È un’immagine cupa, è vero. Ma questo vigore non nasce a monte — chi legge Futuro Lento capisce bene quanto io ami e creda nella tecnologia, e nelle mille splendide esperienze che può abilitare. Il mio obiettivo, in questo e in tutti gli altri numeri, è quello di mettere questo mondo sotto i riflettori esattamente per arginarne gli abusi, conoscerlo più intimamente e rimanerne meglio in controllo.
Ma la tecnologia dev’essere un mezzo, non un fine. Le riflessioni qua sopra confluiscono a valle di anni di degenerazioni, che gli addetti ai lavori (chi è immerso nel mondo tech, in un modo o nell’altro) conoscono bene nelle sue molteplici, quotidiane, subdole manifestazioni.
Scherzavo l’altro giorno su Twitter che potrei aprire un’altra newsletter, chiamarla “Today in Dystopia”, e riempirla soltanto di link a storie che mostrano i punti di una vastissima, preoccupante rete. Ma non era affatto uno scherzo ad animare il mio pensiero.
Una generazione di giovanissimi vittima di burnout dovrebbe essere un segnale allarmante. Ce ne sono altri, e altri ancora ne verranno, perché questo sistema di corsa perenne e sfrenata è insostenibile, e in quanto tale potenzialmente catastrofico — ben oltre i creator e i social. E lo dico perché voglio essere realista, non pessimista. Quello del New York Times è solo l’ultimo granello di sabbia rinvenuto a riva, risputato dalle correnti.
Se penso proprio all’importanza del mare nella Storia, mi vengono in mente le fortune dei Fenici, di Venezia, dell’Impero Britannico. Che, senza entrare nel merito, hanno preso consapevolezza dei propri limiti, e sfruttato degli strumenti (banalmente: le navi) per superare gli ostacoli posti di fronte a loro, con risultati straordinari e duraturi; non da ultimo l’incontro tra popoli. Non si è arrivati nelle Americhe a nuoto.
Oggi è un nuovo mare quello che si para davanti ai nostri occhi; il mare del web, la cui navigazione ci sta però traendo in inganno. La natura di un terreno senza limiti e raggiungibile in ogni suo punto è allettante, e la tecnologia è l’unico strumento che abbiamo per orientarci, farci strada e coglierne gli innumerevoli aspetti positivi.
Proviamo però a ricordarci che siamo esseri umani, non pesci; e che a scambiare la nave (il computer) col capitano (noi), corriamo solo il rischio di affogare.
Could I interest you in everything
all of the time?
A little bit of everything
all of the time
Apathy's a tragedy,
and boredom is a crime
Anything and everything
all of the time
Lo showcase annuale è questa domenica. Sarà un momento fondamentale.
Xbox Series S, che è all-digital; e la più potente sorella Series X, che si rivolge ad un pubblico più interessato alla potenza tecnico-grafica.
Le ultime tre “piattaforme” sono state il focus dell’ultima news; in particolare, Microsoft sta sviluppando partnership con alcuni costruttori di smart TV, mentre la “Xbox stick” potrebbe essere costruita in casa.
Il duo “intelligent cloud/intelligent edge”, che Nadella ha eletto a mantra della compagnia sin dal suo insediamento e che Phil Spencer, da capo della divisione Xbox, ha perfettamente incarnato.
Certo, un OS per mobile avrebbe fatto comodo; ma va bene così.
A meno di puntare ad una fanbase leale disposta a sborsare per una subscription, com’è proprio il caso di Carrot, le altre app avranno giocoforza vita breve: la superiorità intrinseca ad un’app posta come default è già di per sé un ostacolo quasi insormontabile, ma se si aggiunge la castrazione delle pubblicità — con i cui ricavi queste app pagano i fornitori di dati sul meteo — le chance diventano realmente poche.
Sino ad ora, Fanhouse aveva resistito semplicemente non inserendo un’opzione per gli abbonamenti nell’app, sperando che gli utenti capissero autonomamente che per iscriversi al canale di un creator bisognava andare sul sito (questo perché, lo ripetiamo, Apple impedisce alle app di scriverlo espressamente). Ora Apple vuole costringere Fanhouse ad inserire gli abbonamenti in-app, così da poterli tassare.
A differenza, per dire, di Substack, che fa sapere chi è che paga!
E infatti, come detto, se ne sta discutendo in tribunale.
Questo è lo stesso identico discorso affrontato in Facebook v. Apple nel numero quattro, solo che al posto dei creator c’erano i piccoli commercianti, che campano con la pubblicità.
A tal proposito, visto che per Apple la privacy è “un diritto umano fondamentale”, perché tutti gli aggiornamenti privacy-focused non saranno adottati in Cina, il cui mercato guarda caso conta per un quarto dei profitti totali di Apple?
Ci vedete un parallelismo con la storia di Apple e gli sviluppatori? È un puntino piccolo, ma vedete giusto.
Riflettendo sul mondo attuale e i possibili scenari, mi domando spesso se sia necessaria una "educazione digitale" ed in particolar modo quali danni dovremo affrontare prima che questa diventi una necessità sistemica (scolastica, extra o genitoriale).