Il mercato europeo e quello statunitense, sebbene spesso sovrapponibili, sono due entità ben distinte. A volte sono le differenze culturali a riflettersi nelle usanze dei consumatori, altre sono i prodotti e servizi stessi a non avventurarsi oltremanica.
Ci sono poi casi, invece, in cui i fattori determinanti sono più strutturali: negli USA, ad esempio, il relativo dominio di iOS ha garantito ad iMessage una centralità schiacciante in particolar modo nelle fasce d’età più giovani — al posto del qui più diffuso WhatsApp — mentre in Europa Snapchat è virtualmente quasi scomparso in seguito alla diffusione delle Instagram Stories.
Io stesso ho trovato a lungo dubbia la strategia di Snap (la parent company), ma negli anni mi sono dovuto pian piano ricredere, complici anche i numeri trainati dal marketplace americano. Anche Evan Spiegel, il CEO, è sicuramente un personaggio ambiguo, ma non lo si può di certo tacciare di mancanza di caparbietà o coraggio.
Allo Snap Partner Summit della scorsa settimana, infatti, l’azienda si è lanciata al di là della insidiosa siepe della realtà aumentata (AR), con un’idea apertamente acerba ma non per questo poco ambiziosa.
Snap non è più una piccola startup, ma non si avvicina nemmeno lontanamente al Big Tech. Ha una dimensione relativamente contenuta, e in occasioni come questa ciò gioca a suo favore, dacché ci sono idee apparentemente strampalate che hanno modo di fiorire, creare l’identità di un brand fresco e dinamico, e in generale disegnare un’immagine distintiva della compagnia senza scadere nei formalismi.
E dunque quale modo migliore per iniziare una conferenza che — vediamo bene — undici minuti e quindici secondi di video in cui si assiste, in silenzio, alla crescita di un seme fino alla trasformazione in albero? Una mossa del genere potrebbe risultare snervante ai più; io invece l’ho trovata rinfrescante, ma soprattutto intelligente nell’ottica del messaggio che voleva mandare. O, più precisamente, dei messaggi.
Il primo, più elementare, riguarda l’azienda stessa. Come accennato sopra, non più una delle tante startup che negli anni ‘10 hanno preso il volo in Silicon Valley, ma una società quotata in borsa con $2,5 miliardi di fatturato nel 2020 e una crescita mostruosa di oltre il 60% nell’ultimo quarter.
Il secondo potrebbe riguardare Spiegel: un po’ come Snap — e tante figure diventate poi iconiche nel tech — il suo percorso è iniziato in sordina, forse addirittura con un passo falso (non avendo completato gli studi), crescendo poi nel tempo come un albero sino alla fioritura attuale: un amministratore delegato di peso e una personalità nota ben oltre i confini della California, che si alterna bene tra l’ufficio e il palco (per presentazioni come questa).
La crescita della pianta, con le sue diramazioni, è anche uno specchio del prodotto, Snapchat, nato come un social non sofisticato per mandare foto e messaggi effimeri ed evolutosi poi negli anni in un servizio ben più complesso; una piattaforma vera e propria con un notevole pool di creator e consumatori, capace di ritagliarsi uno spazio sempre più consistente in un mercato enormemente competitivo.
L’ultima ragione per aprire l’evento così, invece, è la più banale e la più ovvia, ossia una sorta di teaser per il main event, arrivato poi verso la fine: i nuovi Spectacles con realtà aumentata, che rappresentano tanto un nuovo punto di partenza quanto un’importante tappa del percorso i cui semi, appunto, sono stati piantati già da un bel po’.
C’è della verità in tutti questi messaggi, che del resto si intersecano e combaciano tra loro. Ma sono gli Spectacles il piatto forte, su questo non ci piove. In breve, si tratta di un paio di occhiali con due schermi semitrasparenti al posto delle lenti, in grado di proiettare immagini nella retina di chi li indossa per simulare la presenza di oggetti tridimensionali superimposti sull’ambiente circostante.
La montatura, che a seconda dei punti di vista parrà o un prototipo ancora parecchio grezzo o l’inizio di un nuovo trend estetico (di questi tempi non si sa mai), contiene la bellezza di quattro microfoni, due altoparlanti stereo e un piccolo touchpad laterale studiato per brevi interazioni. In prossimità delle lenti, inoltre, ci sono delle fotocamere, essenziali per permettere allo strumento di scannerizzare e mappare l’area.
Ci sono due caveat principali: la batteria, che dura soltanto mezz’ora, e il fatto che il device non è destinato al mercato. Due dettagli che dettagli non sono, e che Spiegel non ha affatto cercato di nascondere. Nello spirito della trasparenza accennata sopra, Snap ha deciso di non fare promesse che non sarà in grado di mantenere.
Nel corso della demo, inoltre, è emerso che un altro elemento cruciale del design, il field of view (che stabilisce quanto del nostro campo visivo è effettivamente “aumentato” dal prodotto) si ferma a soli 26,3 gradi di apertura; ciò significa che gli elementi di AR sono ben visibili solo guardando direttamente di fronte, cosa che diminuisce fortemente l’immersività (Snap ha mostrato un piccolo giochino con un cane virtuale, per dire, dove l’animale viene continuamente tagliato).
Non c’è tentativo di inganno, dunque, e il prodotto è chiaramente ancora in fase di sviluppo (ossia non pronto). Al punto tale che ci si potrebbe chiedere perché presentarlo. Ma i motivi ci sono, a partire proprio dai tempi: tutto il Big Tech è alacremente al lavoro sull’AR come nuovo paradigma del mobile, e per un’azienda come Snap mostrare di arrivare primi può essere utile per mantenersi rilevante agli occhi di sviluppatori e consumatori. Un prodotto sub-par, per giunta in ritardo, sarebbe un suicidio.
Poi c’è un discorso di feedback loop, molto ristretto per la compagnia: i nuovi Spectacles, fondamentalmente, sono solo un modo nuovo per usare l’app esistente di Snapchat, non uno strumento pioniere di un nuovo sistema operativo vero e proprio (che è ciò che ci si aspetta dalle varie Apple, Google, Facebook, etc.). Il passo, dunque, è per ora meno radicale, ragion per cui uscire allo scoperto, senza ostentare rivoluzioni, ha senso.
La UI è immediatamente riconoscibile, perché è proprio quella dell’app che mezzo miliardo di utenti conosce già intimamente. E tra di essi, tassello dirimente, la comunità di creator dietro alle Lenses1, che sono alla base dell’interazione con gli Spectacles e che andranno — una volta che il device, in versione finalizzata, raggiungerà il pubblico — a rimpolpare l’ecosistema di applicazioni (i giochi e i Mini) che proveranno a dare o meno un senso al tutto.
In ciò, la funzione Scan avrà un ruolo tutt’altro che secondario — poiché le Lenses sono sempre di più, Snapchat cercherà di proporre da sé quelle più rilevanti in base alle caratteristiche del paesaggio. Nella demo, ambientata in un parco, le Lenses suggerite riguardavano la crescita di piante e, appunto, il minigioco con il cane. Due esempi banali, ma esplicativi: la corretta rilevazione del contesto sarà qualcosa a cui Snap dovrà lavorare molto, poiché potrebbe determinare il successo dell’intero sistema (se gli Spectacles mi propongono solo effetti AR inutili o poco calzanti, in soldoni, tenderò a non volerli utilizzare).
Si diceva prima che Spiegel non ha voluto in alcun modo camuffare lo status di palese work-in-progress degli occhiali, pur senza rinunciare a raccontare l’idea di fondo, e nel contempo piantare ulteriori semi. Perché quei semi crescano, tuttavia, il controllo dovrà passare dalle mani di Snap a quelle dei creator (o proprio degli sviluppatori), che avranno il compito di allargare l’ecosistema ed accrescere la value proposition degli Spectacles del domani.
È un’impresa titanica nell’ottica di un confronto diretto con gli altri giganti, ma la natura più leggera di un prodotto come l’occhiale AR potrebbe — almeno inizialmente — essere un vantaggio non di poco conto. Se ormai lo smartphone è una piattaforma matura e complessa, da cui ci si aspetta di poter fare qualsiasi cosa, un occhiale AR, per come lo possiamo concepire oggi, è ancora largamente inteso come un wearable, e dunque un accessorio: utile, in potenza, per operazioni rapide, non certo come rimpiazzo del telefono.
I Mini (i giochini e le mini-app che vivono dentro Snapchat), a tal proposito, si configurano come un’ottima incarnazione: sono facili da creare quasi quanto le Lenses, immediati nell’utilizzo, e soprattutto accettati da Apple. Ricordiamolo: lo Snapchat che vive nei nuovi Spectacles si poggia quasi in toto sulle app per iOS ed Android, e la prima tra queste è indubitabilmente la preferita di Spiegel e soci — ma anche dei creator e degli sviluppatori che quei Mini li progettano.
La benedizione di Apple, la cui disputa in tribunale con Epic Games proprio su questi temi è nelle sue fasi finali, è imprescindibile per Snap: se i Mini venissero classificati come app, Apple li bandirebbe dallo Store, rischiando di compromettere il futuro degli Spectacles. Per sua fortuna, però, Snap è riuscita a cavarsela bollandoli come estensioni per la chat, col pollice in su da Cupertino. Sì, è un’assurdità, una che presta il fianco alla teoria che Apple applica le regole un po’ come le pare e piace2.
Ma pur sempre un’indispensabile boccata d’ossigeno per Snap, che ora può continuare (relativamente) indisturbata a far crescere il proprio alberello3. In attesa, nei prossimi anni, che vengano a maturazione anche i frutti.
Alle quali si può pensare come lo “strato” di realtà aumentata che prende forma, anziché sul volto dell’utente, applicandosi all’ambiente.
Non è certo un caso che, a fronte delle decine di sviluppatori che hanno supportato Epic nel manifestare la presenza (lo dico con un eufemismo) ingombrante del colosso di Cupertino nella gestione dell’App Store, proprio Spiegel si sia esposto dicendosi addirittura felice di pagare il 30% di commissioni ad Apple. Una mossa che ha molto il sapore di pennellata PR servita su un piatto d’argento, poiché il grosso dei ricavi di Snap viene dalla pubblicità, non tassata, e non dagli in-app purchase.
Se servisse un’ulteriore prova della devozione di Snap, basti pensare ai $500 milioni spesi per acquistare WaveOptics, l’azienda che produce i display dei nuovi Spectacles.