Eccoci — benvenuti a Futuro Lento!
Nel post di presentazione ho accennato al fatto che la tecnologia non sia una materia che si può trattare in maniera slegata dal resto, e che la sua importanza e capillarità arrivano spesso e volentieri a toccare aree — mi cito da solo — quali "legislazione, censura e democrazia". Avevo tuttavia anteposto alla lista un "perfino", dacché non sono temi sempre all'ordine del giorno.
Immaginate quando ho iniziato a raccogliere gli elementi per il primo numero e, guardando fuori dalla finestra virtuale, oltre ad un Campidoglio USA sotto assedio, ho trovato una cascata di commenti su come questa sia stata una "settimana spartiacque nella storia dei social media".
First reaction: shock!
Trump, Twitter, la deplatformizzazione
Partiamo dunque da lì. Mercoledì 6 gennaio, un gruppo piuttosto folto di riottosi appartenenti a diverse frange della destra americana ha sfondato il perimetro di difesa del Campidoglio di Washington e si è fatto strada nelle stanze che ospitano il Congresso. L’entrata è stata violenta, poiché l’intento dei rivoltosi era esplicitamente quello di sovvertire il risultato delle elezioni dello scorso novembre in cui Joe Biden si è imposto su un ricandidato Donald Trump. Il Presidente uscente ha rifiutato di accettare la legittimità del voto popolare, e si è speso per mesi nel tentare (per vie legali) un ribaltamento. La scorsa settimana si è raggiunto il culmine: gli eventi del Campidoglio sono stati etichettati come un vero e proprio tentativo di golpe e in cinque hanno perso la vita. Ciò che però ha destato più scalpore è il fatto che sia stato lo stesso Trump a fomentare i manifestanti, invitandoli a “marciare” per “fermare il furto” delle elezioni.
La ricaduta è ancora in corso, e gli effetti si continueranno a sentire per anni, verosimilmente. Nell’immediato, abbiamo assistito ad una sfilza di piattaforme online tirare via il tappeto da sotto i piedi di Trump. Di più: a farlo per la prima volta. Ha iniziato Facebook, con una sospensione temporanea dell’account del Presidente (poi allungata a tempo indeterminato). Instagram si è messo in coda. Nel giro di 48 ore, sono arrivati i ban di Reddit (che ha sospeso il gruppo r/DonaldTrump, una community a lui dedicata), Snapchat, Twitch, Shopify (che ha castrato le transazioni di due negozi in rete affiliati al Presidente), TikTok, Discord, Pinterest, Okta. Il più pesante, tuttavia, è stato indubbiamente Twitter, il canale prediletto da Trump e quello su cui era più attivo.
Come ampiamente prevedibile, è scoppiato un putiferio. Da una parte all’altra dello spettro politico c’è chi ha esultato, chi ha definito questi interventi efficaci ma tardivi, chi invece ha iniziato a gridare alla censura. Nel mezzo, come sempre, tanta confusione. Dal mio punto di vista la decisione è stata giusta e doverosa, nonché puntuale. Ciò non deve però nascondere le aree di grigio che emergono in casi del genere, tutt’altro; argomenti complessi e delicati richiedono una comunicazione più onesta e trasparente per garantire una maggiore comprensione delle sfumature.
Si dovrebbe partire da un principio: Trump è un’eccezione. Lo è non solo in qualità di Presidente degli Stati Uniti, ma anche in virtù del suo modo del tutto eccezionale di utilizzare i social (Twitter su tutti) come strumento de facto istituzionale, tramite cui fare annunci che tradizionalmente sarebbero passati dall’ufficio stampa. Per giustificare il fatto che venissero lasciati online anche i contenuti più problematici che Trump ha messo in circolazione nel corso degli anni — per i suoi 88 milioni di follower in primis, e poi per il mondo intero — Twitter e Facebook si sono prodigate in un balletto progressivamente più goffo e rocambolesco, consistito per lo più nell’aggiustare e ritoccare i termini di utilizzo per far magicamente rientrare nel cerchio dell’ammissibilità anche l’ultimo sconcertante tweet. Il principio (al di là delle intenzioni certamente meno nobili e più economico-pragmatiche) non è sbagliato: di norma, per quanto ripugnanti, le idee del Presidente degli Stati Uniti vanno sfidate e combattute nelle camere del Congresso, non con un bavaglio. Quello che il Presidente dice, benché ampiamente contestabile nel merito, ha un inequivocabile valore di interesse pubblico che va preservato. Twitter e Facebook, però, hanno fino ad ora sempre cercato di proporsi come piattaforme neutrali, evitando ad ogni costo di sporcarsi le mani con decisioni di carattere editoriale (leggi: politico).
Poi, improvvisamente, tutto è cambiato: i tweet (e i post su Facebook, copincollati da Twitter) sono diventati troppo, hanno violato le condizioni d’uso e Trump è stato buttato fuori. Ora, anche senza andare a ripescare dall’archivio uno dei tanti messaggi di Trump che — secondo una linea divenuta bruscamente rigida — avrebbero autorizzato la sua espulsione già da tempo, emerge in maniera lampante come questo circo di tempestive revisioni delle regole sia stato un maldestro tentativo di nascondersi dietro un dito. O, più esplicitamente, di non riconoscere e trattare Trump per l’eccezione che è, anche quando il contesto era mutato drasticamente. Ma un’assunzione di responsabilità è esattamente ciò che piattaforme come Facebook e Twitter non hanno voluto affrontare, perché l’immenso potere evidenziato da tale discrezionalità è il trampolino di lancio verso domande che cercano il più possibile di evitare: perché così tanta influenza è concentrata in così poche mani? Come ci siamo arrivati? Perché, se necessario, non si è fatto nulla prima? — etc.
Ormai, però, si è passato il Rubicone. A conti fatti, l’aver ostracizzato Trump rappresenta in ogni caso un punto di non ritorno. Nel momento in cui le loro piattaforme si sono rivelate indirettamente complici nel tentativo violento di sovversione della democrazia, i dirigenti hanno deciso di staccare la spina. L’idea che la libertà di parola permetta a chiunque, anche il Presidente degli Stati Uniti, di dire letteralmente qualsiasi cosa senza alcun tipo di conseguenza non è democratica, è anarchica. E sono proprio quelle conseguenze — reali, distruttive e senza precedenti — che hanno ridefinito ancora una volta il contesto e concesso a Jack Dorsey, Mark Zuckerberg, Adam Mosseri e soci di tirare una linea e dire “ora basta”.
Mi risulta dunque difficile condividere la posizione assolutista che legittima ogni cosa dietro la libertà di espressione (quelli che ora strillano “1984!”, e magari farebbero bene a leggerlo). Innanzitutto non va dimenticato il fatto che, anche senza social, Trump non è certo a corto di mezzi per farsi sentire, ed è dunque abbastanza bizzarra l’idea che sia stato “silenziato”. Dall’altra parte rimane il problema di fondo, e cioè l’incitazione alla violenza dei suoi ultimi messaggi a cui hanno fatto seguito gli eventi che conosciamo. Prendiamo per buona l’argomentazione per cui alcune piattaforme concentrano effettivamente un potere esagerato, che peraltro puzza sempre più di monopolio, e che questo episodio rappresenta un grave precedente. Ci si deve porre il problema che la de-platformizzazione di Trump sia un tentativo di censura, o piuttosto che il contenuto di determinati messaggi debba essere moderato, cancellato o, dove necessario, proibito — anche e a maggior ragione nel caso del democraticamente eletto Presidente USA — laddove quei messaggi vanno a minare apertamente proprio quelle fondamenta democratiche su cui la sua iniziale legittimazione si poggia?
Come ho scritto sopra, ritengo che la scelta sia stata corretta, anche se giustificata nel framework sbagliato. Ma parlando di moderazione…
Parler e la regolamentazione nella stack
Il secondo importante avvenimento della settimana, in concomitanza con la rimozione dei profili di Trump dalla rete, è stata l’effettiva polverizzazione di Parler. Se possibile, questa notizia è ancora più rilevante, perché scava più in profondità nello stesso problema.
Parler è (era?) un social del tutto analogo a Twitter, popolato principalmente da soggetti espulsi dal social più rinomato e tenuto in vita grazie alla sua sostanziale mancanza di moderazione. È su Parler che è stata pianificata una buona parte degli eventi di Washington, e dove molti dei supporter di Trump hanno trovato uno spazio per proliferare, comunicare ed organizzarsi. Questo fino a che, sempre nell’arco di un paio di giorni, Google ed Apple hanno deciso di rimuoverne l’applicazione dai loro app store, e Amazon ne ha tagliato il collegamento ad internet tirando via il sito dalla propria infrastruttura di hosting in cloud, Amazon Web Services (AWS). La motivazione è sempre la stessa: le nostre piattaforme, dicono le tre big, non verranno utilizzate per istigare alla violenza o promuovere radunate sediziose. Si tratta pur sempre di compagnie private con cui si sigla un contratto, e venire meno a specifiche condizioni è un motivo più che valido per essere cacciati via.
Anche in questo caso però è necessario contestualizzare, senza minimizzare il potere virtualmente smisurato che queste aziende detengono. Il discorso vale soprattutto per Amazon, che con AWS controlla a tutti gli effetti l’accesso al web di decine di migliaia di siti. Senza un’app, gli utenti di Parler avrebbero potuto tentare di aggirare il divieto tramite il sito, ma il colosso di Seattle si è messo di traverso. Perché allora, essendosi posto inizialmente come un distributore neutrale (che non va a guardare il contenuto), Amazon ha deciso di spegnere Parler, assumendosi — anche qui all’atto pratico più che formalmente — la responsabilità di una scelta? Il motivo va sempre riportato al casus belli, e cioè l’immensa gravità dei fatti di Washington. La reazione di Parler, a differenza di Facebook, Twitter e gli altri (che con la moderazione, spesso automatizzata, “censurano” migliaia di contenuti ogni giorno), è stata quella di tirarsi indietro e decidere di non immischiarsi per mantenere questa parvenza di oggettività, un dannoso agnosticismo morale che si traduce in un far west senza regole. La totale assenza di moderazione in cima alla stack (una sorta "pila" immaginaria in cui i mattoni alla base, in questo caso AWS, sostengono quelli sopra, strato dopo strato, fin su in superficie dove l'ultimo livello è quello visibile a tutti — qui, lo stesso Parler) ha allertato le piattaforme sottostanti, che hanno optato per agire come reti di protezione. Il fatto che Google, Apple e Amazon possano far svanire un servizio dal web è inquietante, e dovrebbe sollevare non poche domande (una su tutte: la competizione). Dall’altro lato, nel caso specifico, si ripresenta la medesima dinamica di Trump, in cui per far fronte all’anarchia e ai suoi spiacevoli esiti si è dovuta far intervenire una milizia digitale privata. Resta il quesito primario: se da un lato è un fatto che sia un oligopolio privato a tessere le fila del traffico online, dovremmo preoccuparci che un agente candidamente maligno (Alex Jones, Milo Yiannopoulos, QAnon, etc.) possa essere neutralizzato? O sarebbe meglio che ci fosse uno spazio dove ogni sorta di nefandezza è concessa, in nome della “libertà”?
Parler è un caso limite. Come per Trump, deve rappresentare un’eccezione, non uno scomodo precedente. E, al momento, sembrerebbe esserlo — per capire quanto sia difficile essere tagliati fuori da AWS basti pensare che il National Enquirer, il cui sito è ospitato dal cloud di Amazon e che è tuttora coinvolto in un’aspra battaglia legale con Jeff Bezos su questioni personali e private, è ancora online. Sì, servono a prescindere più competizione e più scelta. Sì, ci sono posti in cui la moderazione è quasi impossibile, come alcuni gruppi privati, e i compromessi cambiano. L’universo online riflette la natura umana, che comprende anche gli istinti peggiori. Ma è un altro paio di maniche. La soluzione a questo problema dovrebbe avvenire attraverso la moderazione in un altro punto della stack: al livello delle piattaforme, non dei gestori (o, più auspicabilmente, a quello legislativo). Parler non ha voluto assumersi le proprie responsabilità, e chi a Parler ha fornito il servizio ha dovuto compensare.
La tecnologia è politica. Benvenuti nel 2021.
WhatsApp e Facebook
Visto che Facebook non aveva avuto una settimana già abbastanza controversa, si è anche aggiunto il caos sulla condivisione dei dati fra WhatsApp (che fa parte del gruppo) e lo stesso Facebook. Tutto è nato da una notifica che è iniziata a comparire all’interno di WhatsApp, che obbliga gli utenti ad accettare la nuova informativa sulla privacy entro l’8 di febbraio per poter continuare ad utilizzare il servizio. Anche in questo caso, la comunicazione di Facebook non è stata eccelsa. Ha iniziato a circolare la notizia secondo cui con questo aggiornamento WhatsApp avrebbe iniziato ad utilizzare le informazioni di profilazione, inclusi i messaggi degli utenti, per migliorare le pubblicità di Facebook.
Questo è categoricamente falso, poiché le chat di WhatsApp utilizzano un tipo di crittografia end-to-end (protette da un capo all’altro, e dunque accessibili solo dagli utenti). È l’aspetto più rilevante, e il motivo per cui, per quanto riguarda i messaggi, WhatsApp rimane un’ottima alternativa. È invece vero che la collezione di alcuni dati può avvenire nel caso di comunicazioni dirette con le aziende tramite WhatsApp Business (175 milioni di utenti su oltre 2 miliardi in toto), che potrebbero condividere alcune informazioni sugli acquisti fatti tramite WhatsApp con Facebook; ma, crucialmente, non in Europa, dove il GDPR costituisce una forma di tutela per tutti gli utenti nella UE e nel Regno Unito.
Lo spauracchio ha regalato ad altre piattaforme di messaggistica, Telegram e Signal su tutte, un notevole incremento dei download nell’ultima settimana, complice anche un tweet virale di Elon Musk che sponsorizzava direttamente Signal. Questo è un bene, poiché al di fuori dell’area europea WhatsApp colleziona già da anni una quantità ingente di dati. Essendo ora sotto il mirino degli enti regolatori, però, ha dovuto iniziare a rendere alcune pratiche più esplicite per mettersi al riparo.
A volte, in momenti come questi, può accadere che alcune piattaforme crescano enormemente e che fette consistenti di una base utente migrino da una parte all’altra — Signal è stato scaricato 8,8 milioni di volte nell’ultima settimana, Telegram 11,9, ed è per questo che Facebook sta correndo ai ripari. Ma è anche vero che spostarsi è più complesso di quanto si pensi; in Europa (e in Italia), anche a fronte di uno scandalo vero e proprio, l’incentivo a spostare le proprie comunicazioni quotidiane su altri lidi potrebbe essere troppo basso. E questo non perché WhatsApp è proprietà di Facebook, che dunque godrebbe dei vantaggi di una posizione monopolistica in questo ambito (argomento fallace su cui torneremo), ma semplicemente perché “su WhatsApp ci sono tutti gli altri”. È l’effetto network, bellezza.
Tornano i rumor sulla Apple Car
La storia della fantomatica “Apple Car” va avanti ormai da oltre cinque anni. Il progetto è noto internamente come “Project Titan”, e nel corso del tempo ha affrontato diverse mutazioni. Pare che sia nato inizialmente come un lavoro sull’hardware (Apple che costruisce una macchina) e che sia stato in seguito ridimensionato ad uno sforzo legato al software (la tecnologia intelligente per guidarla) per via di alcune complicazioni. Nei giorni scorsi, tuttavia, sono emersi report secondo cui Hyundai starebbe collaborando con la società californiana per tornare a lavorare su un’automobile vera e propria, con un arrivo sul mercato pianificato per la seconda metà del decennio. (Un consiglio: se fate business con Apple, non ditelo ad alta voce. Se c’è un modo per mettersi immediatamente sulla loro lista nera, è questo.)
La domanda di base è la medesima: perché una Apple Car? Apple ha sicuramente i soldi in banca (e il talento) per lanciare sul mercato un’automobile elettrica e con un bel design, ma non è con dei bottoni più carini che ha sconfitto Nokia. Serve una motivazione più profonda per entrare in questo spazio, che è notoriamente complesso, comporta margini di rendimento inferiori a quelli dei suoi dispositivi di elettronica di consumo, e non permette a chiunque di acquistare impulsivamente solo perché il prodotto si presenta meglio (è più facile convincere un consumatore a spendere €400 in più per un telefono che €40.000 su una macchina). Un milionario e un ragazzino possono entrambi avere un iPhone, ma difficilmente avranno la stessa auto. Inoltre, laddove iPhone ha essenzialmente creato il segmento premium degli smartphone, un analogo nel mondo delle auto esiste già.
Quindi, forse, Apple ha un’idea diversa di come dovrà essere la macchina del futuro. La direzione più facile a cui pensare è quella della guida autonoma — un trend molto più importante del passaggio alle auto elettriche, e che rappresenterebbe un sostanziale vantaggio competitivo per Apple. Nel momento in cui la componente chiave è un computer e non il motore, i concorrenti non sono più BMW, Audi o Porsche, ma Tesla e Google. E forse è questa la prossima evoluzione: flotte di macchine interconnesse che si guidano da sole, disponibili on-demand, che invece di essere parcheggiate diventano dei taxi per qualcun altro quando non ci servono. È un modo nuovo di pensare anche ai trasporti pubblici, che verrebbero frazionati: anziché avere grandi veicoli su cui tanti passeggeri si riuniscono in strade predefinite, si potrebbero avere tanti piccoli mezzi, magari in proprietà condivisa, che si muovono in percorsi su misura.
Resta però difficile pensare a un prodotto del genere in chiave Apple, che non è tanto una compagnia tech quanto un marchio di lusso. L’idea che possa vendere qualcosa che non si identifica con il cliente da un punto di vista strettamente personale è quantomeno stravagante (poi chissà). C’è anche un discorso di tecnologia: le citate Tesla e Google sono, quasi letteralmente, anni luce avanti nella progettazione delle intelligenze artificiali nel campo, e siamo ancora molto lontani da un prodotto viabile, funzionante e scalabile. Che è invece l’apparente (e logico) obiettivo di Apple, soprattutto se la timeline (che per lo sviluppo di una macchina non è poi così estesa) è corretta. E quindi a quale altezza della stack si trova il valore aggiunto della casa di Cupertino? Mi verrebbe da pensare all’esperienza utente. Ma, senza poter ridisegnare gli interni da cima a fondo (impossibile se bisogna restare alla guida), trovo ostico prospettare una soluzione che sia a metà fra una Tesla di oggi e la fantomatica macchina intelligente di domani.
Reimmaginare l’automobile è un compito estremamente complesso, perché per la prima volta dalla sua nascita si sta ripensando non solo come un veicolo sia fatto, ma proprio che cosa sia una macchina, e quali conseguenze abbia all’interno di un contesto sociale (urbano e non). C’è ancora tanto da capire, e la tecnologia, anche in parte l’elettrico, al momento è tutt’altro che pronta (sull’autonomia non si è neanche raggiunto un vasto consenso su quali tecnologie implementare, figuriamoci la loro applicazione). Apple difficilmente vorrà entrare in scena senza un prodotto convincente — il COO Jeff Williams ha definito l’auto “il dispositivo mobile definitivo”; ci sarà un motivo. Se mai dovesse venire alla luce, assisteremo a tante evoluzioni, e probabilmente alcune conseguenze inattese; del resto, chi mai avrebbe potuto guardare la Model T di Ford e immaginare che sarebbe nato Wal-Mart?
Questa è stata una settimana particolarmente ricca di eventi di peso, e se dovessi mettermi a sviscerarli tutti probabilmente non riuscirei a farmi bastare neanche la settimana che mi separa dal prossimo numero. In previsione del fatto che questo sarà comunque inevitabile il più delle volte, utilizzerò la seconda parte della newsletter per raccogliere altre notizie, chicche e spunti dal web. Ci saranno dei brevi commenti, ma eventuali analisi saranno riservate ad un secondo momento. Non mancherà il modo di occuparsene a tempo debito, ve lo garantisco. Tanto non ci corre dietro nessuno. Giusto?
Benvenuti a…
Futuro Lesto:
Netflix ha annunciato che, nel 2021, ci sarà un nuovo film a settimana. In un anno in cui una pandemia globale ancora in corso rende difficili i piani per le riaperture stabili dei cinema, questa mossa ha senso; ma avrebbe senso comunque, perché una pioggia di contenuti esclusivi è ciò che permette a Netflix di spiccare. Qualcosa funzionerà, qualcosa no; ma Netflix è una entertainment company, non una tech company. La partita si gioca a Hollywood, non nella Silicon Valley. E, come si dice da quelle parti, “content is king”. Quest’anno, anche tenendo conto del solo nuovo catalogo, sono dunque in arrivo più film di quanti ne riuscirete a guardare. Ma, probabilmente, il biglietto lo avete già pagato.
È la settimana del Consumer Electronics Show (CES), una delle più grandi fiere di elettronica di consumo al mondo. Quest’anno c’è anche Samsung, che ha presentato fra le altre cose i suoi smartphone top di gamma (la linea Galaxy S21) e un paio di cuffie niente male. La cosa più intrigante a mio avviso, però, è questo programma legato all’upcycling — perché riciclare quando si può riutilizzare ed estendere la vita un prodotto “vecchio”?
Sono passati oltre dieci anni dalla nascita di Bitcoin, ma ancora ci sono parecchie difficoltà nel comprendere cosa sia esattamente (un sentimento che condivido, perché il tema non mi appassiona granché). Se provaste a cercare “What is Bitcoin?” su YouTube, scoprireste che il video con più visualizzazioni (quasi 10 milioni) è caricato dal canale WeUseCoins. Quel video è stato animato da Stefan Thomas, un programmatore tedesco, che nel corso degli anni è diventato ricco proprio grazie ai Bitcoin. Ha solo un piccolo problema: uno dei portafogli digitali in cui ha lasciato qualche manciata di Bitcoin è protetto da una password che gli permette di inserire fino dieci tentativi per accedere. Lui otto li ha già bruciati, e adesso rischia di lasciare quei soldi in cassaforte per sempre. Di quanto stiamo parlando, chiedete? Ma niente, giusto $220 milioni.
Sempre a proposito di, uhm, tanti soldi, Callaway Arts & Entertainment ha prodotto un meraviglioso libro sulla Cappella Sistina. Si tratta in realtà di tre volumi, a tiratura limitata (1.999 copie), stampati con carte pregiatissime che riproducono ogni dettaglio degli affreschi — in scala. Ci sono voluti 67 giorni per scattare la bellezza di 270.000 foto ad altissima risoluzione, e un particolare software per unirle insieme e poi suddividerle per creare le 822 pagine (17x12) che compongono i libri. Un’opera d’arte su un’opera d’arte. Se avete $22.000 da parte, secondo me, ne vale pena.
Parleremo spesso, suppongo, di intelligenza artificiale, e delle cose straordinarie (e/o terrificanti) che permette. Nell’ultima settimana ne sono venute fuori due: la prima è DALL-E, un neural network che ha imparato a generare all’impronta immagini dalle parole (“una sedia a forma di avocado”). La seconda è una raccolta di “opere” dell’artista Nathan Shipley, che utilizza un algoritmo di machine learning per trasformare ritratti storici in modelli digitali animati simili a persone vere. Se state pensando a Harry Potter, siete già a metà strada.
Abbiamo tutti voglia di tornare all’aperto, stare con gli amici, magari anche solo vedere gente. Andare ad un concerto, ad esempio. Magari al Colosseo? Sì, quel Colosseo: c’è un’idea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali per costruire un pavimento retrattile nell’Anfiteatro Flavio, in modo tale da poter godere di una superficie all’interno dell’arena ma allo stesso tempo non nascondere del tutto gli ambienti ipogei. Ora, magari un concerto è un’idea un po’ favoleggiante, ma mai dire mai. Il bando (Invitalia) chiude fra due settimane.
Rimaniamo a Roma, ma su un’altra industria: il gaming. Si tratta di un campo spesso snobbato o non compreso, soprattutto in Italia. Ma al di là della valenza artistica del medium (che non ha nulla da invidiare al cinema, anzi), i numeri sono da capogiro. È un altro tema che tornerà ciclicamente su Futuro Lento. Intanto però, per tirare nel mezzo proprio il cinema, Lucasfilms (lo studio Disney di George Lucas a cui appartengono Star Wars e Indiana Jones) ha annunciato l’apertura di una filiale dedicata ai videogiochi, Lucasfilms Games. Il primo titolo in sviluppo, in collaborazione con Bethesda (un gigante del settore, recentemente passato in mano a Microsoft) è proprio su Indiana Jones, e sembrerebbe includere la nostra capitale fra le location. A me ricorda tremendamente il teaser di Uncharted 3, ma è un tipo di copiatura della quale non mi lamenterei.
Prendere gli aerei ci sembra ancora una cosa relativamente lontana dalla normalità, ma per concludere questo primo numero volo via felicemente con Alaska Airlines. Perché? Perché unire l’utile al dilettevole, ogni tanto, vuol dire essere geniali.
Bene, ora siete qualche passo avanti nel futuro: non vi resta che rallentare. Noi ci vediamo venerdì!