Su queste pagine abbiamo parlato più volte del concetto di bundling e unbundling e delle sue numerose applicazioni. Allargando quanto più possibile lo zoom, l’ultimo “superciclo” è stato uno di accorpamento, il cui punto apicale è simbolizzato dallo smartphone.
Una piccola scatoletta di vetro e metallo sufficientemente leggera e portatile da poter stare confortevolmente in mano e in tasca, e ciononostante in grado di connetterci col mondo — di più: con molteplici aspetti della nostra realtà quotidiana — in pochi rapidi tap.
Lo smartphone, avendo fisicamente sostituito molti oggetti — fotocamere, portafogli, calcolatrici, taccuini, etc. — e creato i presupposti per la generazione di esperienze del tutto nuove, si è configurato come una sorta di evoluzione esponenziale del coltellino svizzero. E ci ha abituato a pensare che qualsiasi servizio, in un modo o nell’altro, venga intermediato da esso.
Quindi cosa c’è nel dopo smartphone? Essendo giunti ad un picco si può solo scendere? Cosa accadrà in futuro? Dove e come avverranno le trasformazioni più importanti?
Beh… è complicato.
Futuro Lento cerca di guardare al domani attraverso un occhio critico dell’oggi, lo sapete, quindi evito di sbilanciarmi nel fare l’indovino. Guardando ad i macro trend, tuttavia, è possibile scorgere alcuni flussi, e tentare di tracciare una rotta anche solo a grandi linee.
Il primo passo, che stiamo già compiendo (e che è forse il più importante per capire il resto), è lo “scontato” unbundling che sottende il mondo digitale di domani.
Si è a lungo pensato che, più prima che poi, un successore dello smartphone — la famosa ‘Next Big Thing’ — sarebbe arrivato sul mercato in modo tanto dirompente quanto fu per l’iPhone nel 2007, dai wearable prima (una prece) ai visori VR ed AR poi. Sulla realtà aumentata, personalmente, sono ancora fiducioso, ma credo sempre meno nell’idea di un occhiale intelligente in grado di sostituire lo smartphone.
Sia pure in forme diverse (pieghevole? arrotolabile?), lo smartphone non andrà da nessuna parte, almeno nel breve termine.
L’innovazione più strutturale, dunque, va cercata altrove; e la ricerca è un po’ più complessa ed ineffabile proprio perché non esiste un vertice ben identificabile come può essere una singola categoria di prodotto. Più che un nuovo palazzo fiammante in centro città, il mondo tech si sta concentrando sulle strade e l’infrastruttura sottostante. Cose che non si vedono e comprendono in maniera diretta ed inequivocabile, poliedriche ed intrinsecamente proteiformi, che quindi entrano nel vocabolario comune per vie traverse. Si parla, l’avrete capito, di cloud, intelligenza artificiale, 5G, blockchain/cripto, IoT — e perché no, anche di realtà virtuale e aumentata.
Un futuro unbundled, spacchettato, in cui è l’interazione e l’integrazione tra i vari pezzi ad elevare l’esperienza più che la forma fatta e finita di un singolo componente a sé.
C’è però chi guarda già avanti, al momento in cui questo lavoro di ricostruzione dell’ecosistema digitale dalle fondamenta sarà completo; o, sarebbe più corretto dire, giunto ad un buon punto di maturazione. Si tratta, sia chiaro, di un lavoro mastodontico, che si pone come obiettivo (a vario titolo, con la stessa eterogeneità che caratterizza una città reale) quello di rendere possibile la virtualizzazione totale del nostro mondo; un enorme passo avanti rispetto alla moneta a due facce1 che identifica la nostra realtà corrente.
Un mondo in cui pressoché ogni operazione avviene tramite canali virtuali, sempre accessibili e perennemente connessi, indipendentemente dalla natura del punto d’accesso (smartphone, computer, visore AR/VR, smart speaker, smartwatch…).
Tale obiettivo ha un nome, e princìpi di massima già ben definiti: metaverse.
Affronteremo il tema del metaverse nella sua interezza (e imponente complessità) a tempo debito2. Per adesso, è sufficiente capire che il concetto di metaverse è quello di un effettivo successore di internet. Parlare di bundling potrebbe essere eccessivo, poiché il metaverse — come l’internet — non sarà né un qualcosa di facilmente etichettabile né tantomeno un oggetto proprietà di qualche azienda.
Tutta la tecnologia di infrastruttura che oggi si sta tirando in piedi3, però, volge già (direttamente o meno) in quella direzione, e dunque l’accesso di massa al metaverse non avverrà da un momento all’altro (non ci sarà un netto prima e dopo), ma gradualmente, nel corso degli anni e in varie forme.
Una versione prototipale del metaverse, difatti, esiste già, e possiamo rintracciarla nei videogiochi. Esperienze come Roblox, Minecraft o Fortnite, ad esempio, contengono sin da adesso gli elementi cardine del metaverse, ossia:
Vi si accede tramite la creazione di un alter ego/avatar virtuale, il cui aspetto estetico/visivo è tenuto fortemente in considerazione
Sono mondi “persistenti”, che esistono, si evolvono e vanno avanti nella loro sfera virtuale in maniera perpetua anche quando non si è personalmente presenti
Esiste, al loro interno, un mercato, in cui vengono scambiati, venduti e comprati beni esclusivamente virtuali con valute non tradizionali
Quello che manca, il quarto tassello fondamentale, è l’interoperabilità — per passare da un’esperienza all’altra c’è bisogno di staccare e accedere ad un altro profilo, e ciò che avviene all’interno di un ambiente non influenza in alcun modo l’altro. In un certo senso, un po’ come funziona internet: una stessa persona può iscriversi ad Instagram e Twitter, ma a meno di ripostare il medesimo contenuto su entrambe le piattaforme, i due profili (e i due servizi) rimangono distinti.
L’idea del metaverse, invece, è quella di ricreare un medesimo spazio condiviso, accessibile da innumerevoli punti, in cui l’identità digitale del singolo utente persiste, mentre le esperienze, dentro di esso, cambiano4. E per “esperienze” si intende, fondamentalmente, qualsiasi cosa: da un match competitivo in un videogioco ad un concerto (come quello di Travis Scott proprio su Fortnite), passando per una sfilata, una mostra di NFT o la visione in prima assoluta di un nuovo film.
[Il noto designer e art director] Virgil Abloh sta creando una linea di vestiti virtuali da indossare nel metaverse. Abloh: “Voglio creare vestiti virtuali per dipingere immagini precluse ai vestiti fisici, e permettere a chi compra di accedere ad una nuova dimensione del proprio stile personale.” Abloh, che si è molto interessato agli NFT, ha detto lo scorso febbraio che “il mondo reale è solo un metaverse part-time.”
Se provare ad inquadrare il modo in cui il metaverse si configurerà e come lo si potrà praticamente navigare vi risulta astruso, non temete — molto è ancora da definire, se non da inventare, e la linea tra l’internet di oggi e il metaverse di domani è così sfocata che ci si accorgerà del passaggio solo una volta che ci saremo ben addentrati “dall’altra parte”.
Guardare ai videogiochi aiuta proprio perché rappresentano la forma più compiuta di metaverse che abbiamo oggi; un medium sempre più maturo e sofisticato che, con la crescita delle nuove generazioni, conta decine di migliaia di nuovi utenti ogni anno. Chi è nato nel nuovo millennio non conosce una realtà del tutto analogica, ed è dunque già “geneticamente” predisposto ad interfacciarsi col metaverse, pur non cogliendone a pieno né i principi né l’architettura di fondo5.
Nello spostarsi da “semplice” gioco ad esperienza multimediale complessa, il videogame aiuta però enormemente nella comprensione naturale degli elementi cardine di quel mondo interamente virtuale — come un ambiente 100% digitale in 3D — che, a detta della stragrande maggioranza degli osservatori, sarà l’architrave della società in maniera ancora più estesa e pervasiva di quanto non sia internet oggi.
Nel frattempo, ci si prepara6.
Non è un caso, infatti, che nel Big Tech tutti si stiano interessando enormemente al gaming: da Microsoft, che gode di un indubbio privilegio, ad Apple e Amazon, che con Arcade da una parte e Twitch dall’altra hanno già un piede dentro. Passando poi per Google e il suo (finora fallimentare) Stadia; e adesso, pare, anche Netflix.
Come potete immaginare, sulla sostenibilità umana (non tecnologica) del metaverse nutro forti dubbi. Ma nella lotta tra titani, che (per adesso?) poco si cura di questi problemi marginali, la principale sfida ruota attorno al tempo: un terribile gioco a somma zero, in cui l’unico obiettivo è ingaggiare l’utente e catturarne l’attenzione per quanto più possibile.
Ecco infatti che Netflix, per voce dello stesso CEO Reed Hastings, ammette candidamente che la battaglia più serrata non è con, per dire, HBO o Disney+, diretti concorrenti, ma proprio Fortnite. O Adam Mosseri che, dicevamo la scorsa settimana, abbandona l’idea di un Instagram elementare (un’app per condividere foto) ed espande l’obiettivo di conquista a tutto l’entertainment. L’incursione nel gaming di Netflix, a tal proposito, appare dunque come una conseguenza logica — esattamente come l’allargamento d’orizzonte di Instagram.
Ora, come Google ci insegna, il business dei videogiochi è particolarmente ostico. Netflix gode di alcune importanti IP, e potrebbe accedere all’infrastruttura necessaria per lanciare con successo un ramo di produzioni interattive. Indipendentemente da ciò, però, quello che è importante tenere a mente è che l’espansione capillare in business sempre più diversificati non è un’operazione lineare né tantomeno una fine a se stessa.
Adesso e nei prossimi anni si verranno a costruire le fondamenta su cui si definirà l’assetto del mondo digitale di domani, e tutti vogliono una fetta. Il percorso sarà lungo, tortuoso, controverso e pieno di intoppi legali7, quindi non mancheranno il modo e il tempo di riflettere sui pilastri di questa costruzione. Ma di metaverse, in un modo o nell’altro, sentiremo parlare a lungo. Non potrebbe essere altrimenti: si parla, in potenza, di uno dei momenti di svolta dell’evoluzione umana, da un punto di vista della società e del singolo.
Internet sta correndo perché il metaverse possa provare a spiccare il volo.
Ascesa a nuovi cieli o catastrofica precipitazione, poi, starà a noi definirlo.
Si parla oggi di “phygital”, il terrificante portmanteau tra “physical” e “digital”.
In alternativa, se siete impazienti, l’essayist Matthew Ball ha già preparato una tesina da 30.000 parole…
Che va molto oltre i pochi elementi di punta qui evidenziati!
Se ci pensate, la metafora con la città calza alla perfezione.
Cosa che vale anche per internet oggi, del resto.
C’è da fare una distinzione: alcune aziende, come Nvidia, AutoDesk o Fastly, stanno lavorando per creare gli strumenti per mettere in piedi l’ambiente (l’infrastruttura); altre, come il Big Tech, oltre che a pezzi di struttura si concentrano molto sul contenuto. Il gaming ne è l’esempio — e campo di battaglia — principe.