L’altro giorno, spulciando la newsletter del sempre ottimo Gianvito, ho scoperto che Los Angeles ha un nuovo logo. Sì, esattamente: la città di Los Angeles. Io non sapevo nemmeno che ci fosse un vecchio logo, forse perché non sono un fan dell’idea che una città possa essere brandizzata.
Eppure, a ben pensarci, se c’è una città sul pianeta la cui anima si sposa perfettamente con il concetto di brand, è proprio Los Angeles. Se non altro perché, da un secolo a questa parte, la Città degli Angeli è un po’ sinonimo di intrattenimento, che vede il proprio cuore a Hollywood.
Guardando al futuro, però, l’intrattenimento sembra destinato a decentralizzarsi, geograficamente e concettualmente, ben oltre il cinema. E a trovare un nuovo, fluido centro di gravità in rete; in particolar modo su una piattaforma che, da sempre in costante evoluzione, punta a diventare la ultimate destination (anche) per questo settore: Instagram.
Una storia di evoluzione
Penserete: “Ma non è già così?”. E la risposta è… sì. Almeno in parte è già così. Ma la strada avanti, almeno nei piani dell’azienda, è ancora molto lunga. Partiamo da un messaggio postato sulla piattaforma dal boss Adam Mosseri qualche giorno fa (riporto la versione tweet perché è l’embed che Substack permette):
Il succo del discorso è che, dice Mosseri, Instagram “non è più un’app per condividere foto”, ma una piattaforma incentrata sull’espansione in quattro aree specifiche: creators, video, shopping, messaggistica.
Il mondo tech, che sotto la bandiera del progressismo imperituro ed imperterrito nasconde spesso una matrice piuttosto conservativa, è impazzito; un po’ come fu quando anni fa la compagnia presentò il logo nuovo.
La critica principale non è tanto quella, legittima, alla perdita di focus, bensì al fatto che Instagram stia semplicemente cercando di copiare tutti gli altri, e farebbe invece bene a fare “ciò che fa meglio”.
Riflessione: e se fosse esattamente questo ciò che fa meglio? Espandersi, integrare? Più di un osservatore ha notato come il “non essere più un’app per condividere foto” non sia affatto una novità, ma qualcosa che caratterizza Instagram da anni e risale ai tempi del precedente CEO, Kevin Systrom.
Di più: andando a ripescare nella memoria storica dell’app, si può risalire alle sue origini di tool per modificare le foto, da condividere solo in seguito su altri social1. Poi, già nel 2013, su Instagram sono arrivati i video — un’evoluzione logica e forse scontata, ma non per questo una prova meno valida del dinamismo del prodotto.
Di cui qui si apprezza anche la natura squisitamente digitale: laddove un giornale cartaceo può solo contenere immagini statiche e una TV non può che mostrare filmati in movimento, su un servizio all-digital la forma è intrinsecamente cangiante e segue il contenuto, non lo detta. Ciò che crea le incanalature in cui quei bit si riversano è la tecnologia, ed è dunque essa ad accompagnare (sia pure in potenza) l’evoluzione di un prodotto. I video su Instagram non sono arrivati tardi per scelta, insomma, ma perché era necessaria la maturazione dei vari pezzi dell’infrastruttura (fotocamere performanti, reti 4G, etc.).
Feed algoritmico, Storie, Reel
Un discorso analogo si può fare per altre tre feature fondamentali di Instagram, ovvero le Storie, i Reels e il feed algoritmico. Quest’ultimo, che discende direttamente dal News Feed di Facebook, ha ricevuto grossomodo il medesimo trattamento. Aspramente criticato al suo debutto (anche dal sottoscritto, che odia profondamente l’assenza di un più tradizionale feed a cronologia inversa), a distanza di cinque anni si è invece dimostrato cruciale nella crescita esplosiva del servizio.
In un’ottica di continua rifinitura (o di evoluzione graduale, se vogliamo), il circuito di algoritmi2 della piattaforma ha continuato a migliorarsi per comprendere cosa realmente interessa agli utenti, e mostrarglielo — una statistica molto più veritiera (poiché quantitativa) che non quella che traccia cosa gli utenti dicono di volere.
Da quando Instagram ha forte potere decisionale sul farci vedere cose che non abbiamo scoperto da noi, in pratica, l’engagement è sensibilmente cresciuto. Tuttavia, per quanto grande sia stato l’impatto dell’introduzione del feed algoritmico, un ruolo ancor più importante nell’evoluzione di Instagram è stato ricoperto dall’ingresso in scena delle Storie.
Si tratta di un’evoluzione nell’evoluzione: laddove il feed personalizzato, misto e potenzialmente infinito di foto e video trova le sue radici naturali nel digitale, le Storie sono la quintessenza del mobile: momenti brevi, fugaci, fruibili con la stessa agevolezza con cui vengono generati, legati gli uni con gli altri da null’altro che una sequenza di tap.
Non ci sono dubbi che l’idea sia stata copiata da Snapchat senza troppi fronzoli, ma se ha funzionato è perché la natura effimera delle Storie si sposava (e si sposa) alla perfezione con un’app che si propone di far condividere dei momenti — diceva Systrom — più che, appunto, delle semplici foto. Se poi quei momenti creano uno storytelling fluido e continuo, che ogni ventiquattr’ore scade e induce quindi gli utenti a tornare ancora e ancora, tanto meglio.
Non so voi, ma io presto sicuramente più attenzione alle Storie che non ai post.3
Poi è arrivato TikTok.
Un bel grattacapo per Zuckerberg, Mosseri e soci4, specialmente in virtù della crescita esponenziale del social cinese. Il tempo, purtroppo, è un gioco a somma zero: ogni minuto speso su TikTok è un minuto in meno passato su Instagram, che vuol dire meno pubblicità e meno soldi in circolo.
E TikTok, a mangiare tempo, è particolarmente efficace — ha creato un nuovo format, quello dei dei video scrollabili, che è diverso sia dalle Storie sia dal feed tradizionale. Ma soprattutto ha inserito nell’app stessa tutti i tool necessari per la creazione di quel tipo di contenuto, che poi viene distribuito (algoritmicamente) agli interessati in un feedback loop dall’efficienza micidiale. L’altra grande intuizione di TikTok, infatti, è stata il non fare leva su un social network, ma sul contenuto stesso. Non si vede tanto ciò che gli amici o le persone seguite creano, dunque, ma ciò che l’app stessa propone.
I Reel, al momento, sono un tentativo ancora zoppo di replicare l’esperienza, ma mi aspetto presto che il set di feature raggiunga una sostanziale parità. Più difficile sarà invece capire se, quando e come i Reel sfonderanno la barriera del tab dedicato per entrare più direttamente nel feed. Un grande azzardo, da una parte, ma dall’altra una mossa non così concettualmente diversa dall’integrazione delle Storie lì in cima al feed.
La casa dell’intrattenimento
Nel discorso del post qua sopra, Mosseri ad un certo punto dice:
Il primo motivo per cui, nelle nostre ricerche, le persone ci dicono di usare Instagram è per essere intrattenuti. […] C’è molta competizione e molto lavoro da fare, ma noi abbracciamo la sfida. E ciò significa cambiamento.
È tutto lì.
Il passaggio da app per i filtri a servizio per la condivisione delle foto, per poi diventare un vero e proprio (social) network con tanto di feed algoritmico e l’aggiunta, in seguito, di feature quali Reel e Storie — presto anche esclusive, per i creator che metteranno parte del contenuto a pagamento — denota che il cambiamento è, di fatto, nel DNA dell’azienda sin dall’inizio.
Diventare il principale hub per l’intrattenimento a tutto tondo è anch’esso poco più che un’ulteriore naturale (seppur ambiziosa) evoluzione del servizio, e ha perciò totalmente senso che sia il passaggio fondamentale del recente discorso del CEO.
Che poi Instagram sia anche lo specchio di una più generale insostenibilità, beh, quello è un altro paio di maniche.
Stiamo parlando dei primi anni ‘10, in cui le fotocamere per smartphone erano pessime e i filtri originali di Instagram riuscivano a dare un tocco di stile.
Che, ricordiamolo, sono molteplici: diffidate da chi parla de “l’algoritmo” come se fosse un’unica entità.
Che, guarda caso, sono spesso messi in luce proprio nelle Storie.
Ma anche per Google e YouTube; finanche Netflix.