La scorsa settimana, mentre un impeto dalle note quasi luddiste albeggiava nella mia penna, il Congresso americano ha visto l’introduzione di ben cinque disegni di legge ideati per mettere un freno alla esplosività del Big Tech.
Penserete: benissimo! E magari io sarò anche contento, no?
…aehm.
Un passo indietro.
L’anno scorso, la commissione antitrust del Congresso statunitense ha prodotto un mastodontico report di oltre quattrocento pagine in cui venivano messe in luce alcune perplessità circa la competizione nel mondo tech, con occhio particolare al Big Tech. A capitanarlo c’era Lina Khan, la giurista trentaduenne che Biden ha recentemente promosso a testa della Federal Trade Commission (FTC).
Khan è molto critica del Big Tech, e detiene tra le sue posizioni la ferrea convinzione secondo cui i cinque big stiano fondamentalmente schiacciando via i competitor più piccoli e, di conseguenza, mettendo i bastoni tra le ruote all’innovazione. Una veduta che, a grandi linee, ha certamente una traccia condivisibile — io stesso, non più tardi della settimana scorsa, bacchettavo per l’ennesima volta (ex multis) le politiche stolte ed avide di Apple sulla soffocante tassa del 30% dell’App Store, assolutamente proibitiva per alcuni piccoli business (che infatti non esistono proprio) e similmente dannosa anche per realtà più strutturate come Spotify.
Il problema di quel report, tuttavia, non era il metodo, ma il merito: una valanga di errori di valutazione grossolani impastati in dati talvolta del tutto errati, principe tra i quali la famosa affermazione secondo cui la creazione di startup nel mondo tech fosse “bruscamente scesa” nell’ultimo decennio. Purtroppissimo, però, il data set su cui si basava tale asserzione si fermava al 2011 — un buco di nove anni, per di più a ridosso della tremenda crisi finanziaria.
Se quei dati corrispondessero alla realtà la situazione sarebbe a dir poco allarmante, perché l’oligopolio percepito del Big Tech andrebbe oltre anche le peggiori elucubrazioni orwelliane. Come già accennato su queste pagine lo scorso aprile, invece, il numero di startup negli anni ‘10 si è triplicato, a dimostrazione che la realtà è un attimo più sfaccettata.
Questo “dettaglio”, a ben vedere, è già di per sé un ottimo framework attraverso cui leggere le cinque nuove proposte di legge (distinte, ma giunte come un pacchetto).
(s)proposte di legge
O meglio quattro, perché una — il ‘Merger Filing Fee Modernisation Act’ (link) — si occupa semplicemente di alzare le tariffe per i finanziamenti delle commissioni che revisionano le acquisizioni; una proposta largamente condivisibile e senza apparenti contraddizioni.
Le altre, invece, sono nuovamente un coacervo di spunti interessanti e presupposti del tutto illogici che ne affondano ogni qualsivoglia validità. A partire dal loro target, che ha un odore vagamente discriminatorio sulla falsariga della pagliacciata andata in onda in Australia lo scorso inverno. Neanche in questo caso si tratta di tasse, ma appunto di leggi, che nello specifico si applicherebbero ad aziende con:
Un market cap uguale o superiore a $600 miliardi
Una base utente di almeno 50 milioni di user attivi mensilmente (o, in alternativa, 100.000 imprese) sulla loro piattaforma
Un ruolo di “partner chiave nella vendita o fornitura di beni o servizi offerti o direttamente legati” a detta piattaforma
Fate un rapido calcolo e le carte da scoprire, surprise surprise, sono cinque: Apple, Amazon, Facebook, Google e Microsoft. Si dirà: ma va bene, del resto il cuore del problema è lì. Vero, giustissimo. Ma dunque di che si parla in queste proposte?
Il ‘Augmenting Compatibility and Competition by Enabling Service Switching (ACCESS) Act’ (link) prende in esame la cosiddetta data portability. Perché, ad esempio, è così complicato spostarsi da un iPhone ad un telefono Android? La risposta più semplice è che Apple fa di tutto per fare in modo che i dati dell’utente restino ancorati saldamente ai propri servizi, così da rendere il passaggio farraginoso e sconveniente. Ma si potrebbe dire lo stesso di Google, non particolarmente entusiasta all’idea che, ad esempio, le foto caricate su Google Photos vadano altrove. O Microsoft, i cui tool per business ostacolerebbero il trasferimento a piattaforme terze. (Si possono fare centinaia di esempi.)
L’idea di avere libera interoperabilità tra i dati dovrebbe essere uno dei principi fondanti dell’open web, ma compagnie che operano servizi privati hanno tutto l’interesse ad alzare i muri dei propri “giardini chiusi” per rimpolpare esclusivamente il loro ecosistema. Una proposta di legge che costringa le aziende a rendere l’interscambio più fluido è dunque cosa buona per il consumatore, ancor più se legata alla potenziale creazione di standard universali1. La domanda però è: cosa sono, esattamente, questi “dati”?
Tanto per cominciare, paradossalmente, un “prodotto chiuso”, dacché molti dei “dati” contestati hanno valenza solo in quanto parte del software proprietario di una compagnia. Il video nel mio reel di Instagram non ha un valore intrinseco, ma lo assume perché c’è l’intero ecosistema della piattaforma attorno; dall’algoritmo che lo promuove nel tab Discovery ai like che prendo dagli altri utenti, passando per i tag e gli hashtag — che su Instagram rimandano a qualcosa di specifico, non necessariamente corrisposto altrove — e le interazioni con gli stessi.
A questo discorso fa capo uno dei principali misunderstanding che popolano le buone anime dei legislatori, ovvero il valore dei network effect. Perché si usa Instagram? Perché le foto sono “migliori”, o “esclusive”? No; lo si usa perché lo usano tutti gli altri. Se anche si potessero esportare i “dati” di Instagram (come i post e le storie) sulla piattaforma di un competitor, chi userebbe questo fantomatico nuovo servizio? Nessuno. Se una startup potesse avere accesso alla cronologia di ricerche su Google di tutto il mondo (nell’aggregato), di che se ne farebbe in assenza di tutta la strumentazione attraverso cui quei dati grezzi vengono raffinati e resi utili? Risposta: niente. E così via.
Ciò che servirebbe per rimpinguare i canali della competitività, più probabilmente, sarebbe creare un modello di esportazione dell’intero social graph (per piattaforme come Facebook, Instagram o Twitter), ma non è questo che la Federal Trade Commission — l’organo chiamato a sovrintendere — si troverebbe a promulgare, visto che il tema non è neanche superficialmente affrontato nel disegno di legge.
Ultima nota: a chi appartengono i “dati”? Se io metto “mi piace” al tuo post, quel “dato” è mio o tuo da esportare? Sono tutte domande niente affatto retoriche, ma piuttosto il nucleo stesso della complessità del tema. Che non ha risposte definite, e che nell’ACCESS Act viene totalmente ignorato a fronte di un tanto generico quanto velleitario appello alla “data portability”.
Poi c’è il ‘American Choice and Innovation Online (ACIO) Act’ (link), i cui commenti sono invero identici a quelli da segnalare in merito al ‘Ending Platform Monopolies (EPM) Act’ (link) — questo perché, oltre a presentare richieste di per loro insensate, i legislatori americani non sono neanche riusciti a rendersi conto che alcuni contenuti sono in contrasto tra loro, poiché all’affermarsi degli uni verrebbe meno la fattibilità stessa degli altri. (🤦🏻♂️)
In buona sostanza, l’ACIO Act impedirebbe alle piattaforme di fornire un servizio qualora questo avvantaggiasse l’azienda produttrice della piattaforma o, in modo del tutto complementare, svantaggiasse dei potenziali concorrenti; l’EPM Act, invece, promuove un ban diretto a qualsiasi forma di sovrastruttura che il fornitore di una piattaforma volesse mai implementare, di fatto invalidando quel margine d’azione concesso nell’ACIO.
Suona arzigogolato? Sarà la stupidità.
Traduciamo.
Sia Google l’azienda presa in questione e il sistema operativo Android la piattaforma2. Prendendo per buone le disposizioni dell’ACIO, un utente che acquista il suo nuovo telefono Android lo accenderebbe e troverebbe, presumibilmente, solo l’app “Impostazioni”, perché tutte le altre app che si è abituati ad avere fuori dalla scatola (come le note, la galleria, la fotocamera, l’app per le mail, etc.) potrebbero essere sviluppate da un competitor di Google, e dunque l’averle preinstallate costituirebbe un illegale “vantaggio”. Se invece dovesse passare l’EPM Act, anche le Impostazioni, il file system, l’app store e persino l’interfaccia utente sarebbero banditi, poiché andrebbero a costituire una “sovrastruttura”.
Il vostro telefono Android sarebbe un fermacarte. Il vostro computer Windows non potrebbe, ad esempio, salvare un file, perché tale opzione sarebbe una “sovrastruttura che avvantaggia l’azienda che fornisce la piattaforma”; e il vostro Mac non potrebbe stampare, perché ci potrebbe essere un’azienda che sviluppa un software per stampare che sarebbe “svantaggiata” dall’integrazione di Apple3.
E dunque, invece che rendere possibile a Spotify di far abbonare gli utenti senza dover lasciare il 30% ad Apple (pratica sfacciatamente anticompetitiva), l’ACIO taglierebbe la testa al toro e non permetterebbe ad Apple Music di esistere. Di più: avete presente gli “Amazon Basics”? Bene, dimenticateveli, perché anche amazon.com è una “piattaforma”, e non è ammissibile che Amazon vi competa. Un po’ come dire che la Coop non può vendere i propri biscotti nei punti vendita Coop, altrimenti è un torto al Mulino Bianco.
Una legge che, in pratica, farebbe implodere su se stesso l’intero mondo tech con uno schiocco di dita. Ma lorsignori assicurano che questo metodo radicale dovrebbe risanare la competizione.
E non è finita qui. C’è il ‘Platform Competition and Opportunity Act’ (link), l’ultimo capolavoro del branco, che introdurrebbe un blocco per direttissima di ogni tipo di acquisizione di altre aziende. In poche parole, per risolvere il disastro dell’acquisto di Instagram da parte di Facebook, si bandisce tutto l’M&A, a prescindere. Geniale!
Capite l’assurdità? Se c’è un problema alle dita delle mani, l’unica soluzione proposta è quella di amputare entrambe le braccia; poco importa se il problema delle dita non viene risolto, e stigrancazzi del resto del corpo.
Qui non si tratta soltanto di mancare quasi interamente la natura del problema — e dunque non offrire una soluzione reale — ma di introdurre leggi (!) con conseguenze inattese a dir poco devastanti, che ironicamente andrebbero solo ad acuire i problemi che si proporrebbero di affrontare.
Dall’accetta al bisturi
Qual è la lezione da imparare qui? In una parola, la nuance.
I politici sono certamente più simpatetici nell’accogliere le istanze di forte critica agli abusi (e conseguenti degenerazioni) della tecnologia che non chi lavora in Silicon Valley e più in generale nel tech; tuttavia, la profonda ignoranza circa l’effettivo funzionamento delle sofisticate architetture che ne regolano le logiche — e quello, a cascata, della società tutta — portano sul tavolo soluzioni che non risolvono nulla; vuoi per impraticabilità, vuoi per la totale assurdità su cui i principi fondanti stessi di questi disegni di legge si basano.
Quando si tratta di temi così spaventosamente intricati — non solo nella loro inerente complessità tecnica, ma anche per i risvolti globali che hanno4 — è infatti facile farsi prendere da una sorta di entusiastico populismo (quello sì fanaticamente luddista) e tirare fuori slogan come il celebre “break them up!”, tanto caro alla democratica Warren. L’idea di “spaccare” (o “spacchettare”, per essere gentili) i grandi colossi del tech suona bene, ma è giusto portare avanti quella fiaccola acriticamente nella convinzione che porti a dei risultati concreti o sarebbe forse più utile studiare i problemi con gli strumenti necessari per comprenderli a fondo?
Il modo per contrastare il Big Tech da un punto di vista legale esiste, è già stato messo in pratica con successo5, ed è quello di entrare nei punti critici dei meccanismi ingarbugliati delle piattaforme per fare leva miratamente su di essi; non scrivere generiche “leggi”. Che oltretutto, anche una volta messe in atto, rischierebbero di diventare presto obsolete. Di tali interventi, chirurgici e ben definiti, c’è estremo bisogno (qualcuno ha detto 30%?), e sprecare l’opportunità perdendo anni su proposte vanesie ed irrealizzabili è il peggiore, più stupido regalo che si possa fare al Big Tech.
Pensate alla comodità di avere il cavo USB-C, ad esempio, come connettore unico; o più banalmente a formati universali (e non proprietari) come il PDF.
Un OS, nell’offerta finale al consumatore, può considerarsi lo strato più basso della stack, e dunque la “piattaforma” d’inizio. Nel disegno di legge, tuttavia, la definizione di piattaforma è piuttosto larga: può essere infatti “un sito, un’app, un sistema operativo, un assistente digitale o un servizio online” su cui utenti e terze parti si incontrano, scambiano, costruiscono.
Riprendo maggiormente Apple perché, essendo l’azienda che costruisce quasi la totalità del proprio business model sull’integrazione verticale, sarebbe anche quella più colpita. Sarebbe però giusto riconoscere che, fino ad un certo punto, quell’integrazione garantisce benefici tangibili al consumatore, anche al netto della perdita di qualche spunto per la competitività; combatterne l’abuso con l’accetta, però, non è certo una soluzione valida.
Ne parlo qui a voi esattamente per questo motivo; non si pensi che ove mai una di queste proposte andasse in porto il resto del mondo sarebbe protetto dalle conseguenze.
Si pensi alle risoluzioni che hanno abolito le tariffe aggiuntive per utilizzare liberamente le reti mobili nell’Unione Europea; si è dovuto “spaccare” Vodafone per ottenere qualcosa?