Il gaming è, tristemente, un mondo ancora alieno ai più. Specialmente in Italia, lo stigma sociale attorno al medium è tuttora molto ingombrante; da chi li combatte attivamente, poiché li ritiene pericolosi1, a chi considera i videogiochi come un qualcosa da nerd, da sfigati o da bambini. È una manifestazione di ignoranza, né più né meno, a cui forse è preferibile anche la generale indifferenza di un’altra consistente fetta sociale. La parte rimanente, d’altro canto, è non solo attiva (tra chi promuove i giochi come espressione artistica, tipo il sottoscritto, e chi magari si butta nello streaming o negli eSports), ma anche particolarmente cospicua in termini di spesa economica.
Basti pensare, lo ricordo ancora, che l’industria del gaming oggi è più grande di quella del cinema globale e degli sport negli USA messi insieme. Stiamo parlando di un giro d’affari di circa $180 miliardi, che nel 2021 è destinato ulteriormente ad aumentare; e cresce, nella fattispecie, il fenomeno del mobile gaming, che si avvantaggia della immensa base installata di dispositivi (1 miliardo su iOS, 3 su Android) per distribuire software come mai prima d’ora2. Lo scorso anno, per mettere le cose in prospettiva, il mobile ha generato circa $77 miliardi, ovvero tanto quanto l’intero settore nel 2013 (ci torniamo).
Si tratta, dunque, di un’industria interessante da analizzare per due motivi: l’esplosione da un punto di vista del business per un verso, e per l’altro quella come canale sempre più affermato di pioniere nella pop culture; dalla qualità e varietà intrinseca dei titoli pubblicati alle idee più pazze ed innovative su un livello superiore di astrazione, come nel caso del tanto chiacchierato metaverse promulgato da Fortnite and co. e tutto ciò che esso comporta.
Si dovrebbe affrontare singolarmente ogni argomento, e sarebbe velleitario tentare di fare tutto qui e ora. Terminata questa brevissima panoramica, dunque, vorrei concentrarmi meglio su Sony e PlayStation, la cui peculiare posizione ha suscitato in me un distinto interesse.
Gaming: content is king
Partiamo da un presupposto: il mondo tech e quello gaming sono più vicini che mai, e non sarebbe scorretto dire che il secondo è a tutti gli effetti un sottoinsieme del primo. Tuttavia, nel numero otto abbiamo chiarito un concetto fondamentale che distingue in maniera piuttosto netta i due. Laddove nel tech, soprattutto nel braccio di elettronica di consumo, si punta molto sulla robustezza dell’infrastruttura (o meglio del contenitore, a qualunque livello della stack3), il successo nel gaming deriva quasi esclusivamente dalla bontà del contenuto. “Content is king”.
Prendiamo un banale telefono: un processore più performante, uno schermo più brillante, una fotocamera migliore o una batteria più duratura possono determinare la vita o la morte di un prodotto. Gli anni ‘10 hanno fatto da palcoscenico a più e più battaglie spietate di questo tipo, e sebbene siano state mietute numerose vittime (ve le ricordate LG? HTC? Motorola? Bei tempi), la guerra, su altri fronti, è ancora in corso. La componentistica non è tutto, ma conta.
Nel gaming, invece, storicamente la corsa alle specifiche non solo non è mai stata un punto di forza (Nintendo, altrimenti, non esisterebbe), ma a tratti uno di debolezza. Chiariamoci: una console più potente, in re ipsa, non è certo un tallone d’achille. Ma lo può diventare se al netto delle potenzialità vengono meno le risorse per il contenuto, ovvero i giochi. Che senso ha comprare una Ferrari per rimanere imbottigliati nel traffico cittadino? Questa è la domanda che ha messo un po’ in croce Microsoft all’inizio della scorsa generazione.
Piccola lezione di storia.
Siamo nel 2013, Sony introduce al mondo la PlayStation 4 e Microsoft svela la nuova Xbox One. La casa di Redmond vuole fare le cose in grande, e sogna di trasformare Xbox in un vero e proprio media/entertainment hub: si possono vedere i Blu-ray, ci sono app come Netflix e Hulu, viene dato spazio alla musica. Il Kinect, lanciato come accessorio per Xbox 360, diventa obbligatorio, e parte integrante della macchina.
La console dev’essere sempre connessa alla rete per funzionare, viene posta una grande attenzione alle versioni digitali dei giochi e il sistema messo in piedi per le copie usate è complesso e caotico — lo specchio dell’intera comunicazione sul prodotto, affossata da tutta la community, che riconosce in Xbox One un oggetto senza un focus preciso, pieno di feature che sembrano non interessare nessuno. In una parola, un disastro. Aggravato per altro dalla posizione di Sony, che coglie la ghiotta opportunità per punzecchiare i rivali ad ogni piè sospinto.
Se i presupposti sono pessimi, il contenuto che segue è anche peggio: Sony è munita di una schiera di sviluppatori first party pronti a rilasciare esclusiva dopo esclusiva, mentre Microsoft stenta anche a promuovere le sue IP più celebri (come Halo o Gears of War). Il colpo di grazia arriva con i prezzi, annunciati a poche ore di distanza durante l’E3 di giugno: $499 per Xbox One, $399 per PS4.
Gli anni a venire, come molti ebbero a notare già allora, si sarebbero scritti da soli. Ai giocatori importava ben poco che Xbox One fosse così accessoriata, potente e in grado di assolvere a più funzioni: senza titoli di peso, il gioco — quasi letteralmente — non valeva la candela. E poiché sviluppare IP è un’impresa che richiede investimenti mastodontici e anni di lavoro, il non aver preparato il terreno per tempo fu un vero e proprio suicidio per Xbox. A generazione conclusa, infatti, la vittoria del gruppo PlayStation è stata monumentale: oltre 115 milioni di unità piazzate in sette anni, più del doppio di Microsoft (50m di pezzi venduti circa).
Mercato nuovo, soluzioni nuove: ripartenza da zero per Microsoft, un mondo post-console per Sony
Il mercato, però, è cambiato molto, e la nuova generazione si prospetta in modo radicalmente differente. Le aspettative dei giocatori sono diverse, e sebbene il contenuto mantenga ancora la sua assoluta centralità, il contenitore ha cambiato forma, ed ha un ruolo non più secondario. Microsoft ha stravolto la divisione Xbox, speso cifre inenarrabili per rimpolpare i suoi Game Studios (che dovrebbero, finalmente, sviluppare nuove esclusive), e soprattutto fatto leva sugli altri bracci della compagnia per tirare su una ferrea struttura per il cloud gaming, supportata da una decisione strategica lungimirante come quella di spingere su xCloud e l’abbonamento Game Pass (con l’obiettivo di costruire la famosa “Netflix dei videogiochi”).
Il potenziale non manca, e se le nuove IP dovessero fare breccia il colosso di Seattle darà del filo da torcere a tutti. Ma qui, appunto, emerge il ritrovato peso che ha l’infrastruttura nel panorama complessivo. Se nella scorsa generazione tutto si riduceva bene o male alla sola console e al servizio online per gestire le esperienze multigiocatore in rete — che quindi metteva Sony e Microsoft su un terreno relativamente neutro, su cui il fattore differenziante erano i giochi — il cloud streaming da una parte e l’agnosticismo della piattaforma dall’altra (la pratica che predilige la pubblicazione di un titolo su più canali di distribuzione, come fa Microsoft con Xbox e i PC Windows) mostrano che a questo giro l’investimento sul contenitore ha previsioni molto più rosee, ed evidenziano una disparità enorme tra le due aziende.
E quindi qual è l’idea di Sony? Se da un lato PlayStation 5 è già partita col turbo4, l’azienda Giapponese sa di non poter competere ad armi pari con Microsoft sulla struttura — tanto che, per il proprio servizio di streaming, ha optato per la stessa Microsoft e il suo servizio di cloud Azure come partner. La strategia rimane dunque una, e cioè mettere il carico da novanta sul suo piatto forte, i contenuti; anche, crucialmente, al di fuori di PlayStation. Più che in passato, infatti, il successo economico complessivo dell’operazione non dipenderà tanto dal numero di console vendute, ma dall’ottimizzazione della vendita del software alla base installata costruita nel decennio scorso5, e al contempo dall’apertura di nuovi orizzonti.
Ci sono 47,6 milioni di iscritti a PlayStation Plus, il servizio a pagamento di Sony che permette di giocare online, accedere a sconti esclusivi e tutta una serie di altri bonus. A questi si aggiungono altri 3,2 milioni di iscritti a PlayStation Now, la piattaforma di streaming (che la compagnia, quasi certamente, è in procinto di ammodernare in maniera significativa, per competere meglio con xCloud).
E poi ci sono i numeri di crescita: il braccio software e servizi, che nel 2013 costituiva circa il 52% dei ricavi per Sony Interactive Entertainment (la divisione che ha dentro sé il brand PlayStation) e ora viaggia sull’80%; e poi il market share delle console, dove Sony controlla il 45% e prevede di veleggiare spedita sopra il 50% entro il 2025. Ciò, a grandi linee, non significa che il business dell’hardware perderà importanza in termini assoluti, ma il futuro dell’universo PlayStation dovrà necessariamente aprirsi oltre i limiti della sola console fatta in casa per tenersi competitivo.
È il contenuto stesso a testimoniare questo cambiamento. Laddove il trionfo di Sony nelle scorse due generazioni ha avuto molto a che fare con la strategia dei titoli first-party — spese ingenti in IP come The Last of Us, God of War, Death Stranding, Spider-Man e così via, poi fatte fruttare vendendo il prodotto finale ad un prezzo medio di $60 — i primi 7 mesi di vita di PS5 hanno visto un calo del 15% nella distribuzione di tali giochi, a fronte di un boom del 231% (!) in acquisti minori, come le microtransazioni all’interno dei free-to-play.
Il modello, dunque, deve giocoforza diventare più orizzontale, uscire dai confini tradizionali e fare leva su canali maggiormente diversificati. Tra di essi, la compagnia pare averne individuati tre: il cloud, menzionato sopra; la virtual reality, con il nuovo PSVR all’orizzonte; e infine il mobile. Gli ultimi due, in particolare, sono terreni quasi ancora del tutto inesplorati da Sony, e nei quali l’opportunità di espandersi è enorme (specialmente, abbiamo visto, nel mobile).
C’è dell’altro. Il porting di un’esclusiva PlayStation su una piattaforma esterna sarebbe stato assolutamente impensabile solo qualche anno fa, ma il successo di Horizon: Zero Dawn su Steam (un ritorno sull’investimento del 250%) ha seriamente cambiato le carte in tavola; Days Gone, un’altra vecchia esclusiva, è apparsa sullo store di Valve il mese scorso, e a breve sarà il turno di Uncharted 4.
Proprio Uncharted, infine, potrebbe fare da apripista per un altro tipo di avventura, quella nei lidi di Hollywood. Il primo film tratto dalla saga, che è stato in gestazione per anni, pare finalmente essere in fase avanzata di sviluppo, con attori del calibro di Tom Holland e Mark Whalberg nel cast. In parallelo, sotto la nuova PlayStation Productions, c’è anche la serie TV dedicata all’altro franchise di Naughty Dog (The Last of Us) che, sotto il controllo creativo del director Neil Druckmann, il producer Craig Mazin (Chernobyl), Pedro Pascal e Bella Ramsey (Game of Thrones) come protagonisti e il supporto di HBO per la distribuzione, promette faville.
Sony, ironicamente, si trova in parte a ricoprire il ruolo che Microsoft tentò di interpretare nel 2013, alla ricerca della chiave di svolta in un mondo post-console. Ma in una situazione diametralmente opposta, con un mercato più maturo e dalle richieste più articolate, tale per cui ciò che destinò Xbox One al fallimento potrebbe essere per PlayStation l’unica via di vittoria. È un cambiamento epocale per la casa nipponica, ma la solidità dei franchise potrebbe garantire un futuro radioso al brand; anche per quando si spegnerà del tutto la luce sull’idea di console come la conosciamo oggi.
I videogiochi, che entrino dalla porta o dalla finestra, sono il futuro centro nevralgico dell’intrattenimento. In forme più variegate o del tutto nuove, entreranno nel linguaggio comune alla stregua di musica, film e serie televisive, e saranno presto da tutte le parti. O meglio, come si suol dire in questi casi: prossimamente su tutti gli schermi.
Spesso la stessa generazione di adulti che, bacchettona coi propri figli, oggi tiene beatamente il proprio cervello al macero su Facebook.
Ricordavamo, sul numero diciassette, che il gaming rappresenta di gran lunga la fetta più consistente del fatturato degli app store.
Anche un iPhone, in questa metafora, è “infrastruttura”.
Un po’ strozzato da quel piccolo problema globale chiamato chip shortage; ma comunque in grado di riprendersi nel lungo termine, e quasi 8 milioni di console già vendute. Cifra monstre.
Se somiglia alla strategia di Apple e al suo spostamento massiccio verso un’intensificazione del braccio servizi, è perché è precisamente la stessa cosa.