Giugno sta per apparire sul nostro calendario, e siamo alla fine di una settimana movimentata all’interno di un mese altrettanto animato. Come sempre, del resto — i mesi che precedono l’estate sono tra i più ricchi di annunci, spesso riguardanti alcuni blocchi che vengono poi ripresi e/o lanciati durante i mesi autunnali.
L’evento di punta, su cui si incentra la overview di oggi, è però l’I/O di Google, ovvero la conferenza annuale dedicata agli sviluppatori in cui la casa di Mountain View si mette a nudo per mostrare tutti gli ultimi avanzamenti.
La presentazione è stata piuttosto ricca, con un affascinante sguardo alla prossima versione di Android e al sistema visivo Material Design You, che riprende l’ormai iconico linguaggio lanciato nel 2014 e lo porta ad un notevole livello di maturità.
Tuttavia, sono altri tre gli elementi che mi interessa commentare. Vediamoli insieme.
Google, Search, e la nuova realtà
Partiamo da un piccolo aggiornamento a Google Photos, chiamato Cinematic Photos: si tratta di uno strumento che, in breve, raccoglie due fermi immagine e li combina insieme per creare una sorta di “mini film”.
Il metodo, facile a dirsi ma un pelino più complicato a farsi, funziona attraverso un riempimento dei frame messo in atto interamente dall’intelligenza artificiale. Di fatto, i frame creati tra il primo e l’ultimo (ovvero i due scatti originali) non esistono, ma il tool è sufficientemente sofisticato da riempire il gap in modo del tutto naturale e credibile.
È il simbolo di una sorta di “nuova realtà” (digitale, ça va sans dire) al cui centro Google sta tentando di porsi. E al centro di quel centro, naturalmente, c’è Google Search, il programma più vecchio e più importante.
Durante la presentazione, il super-ingegnere Prabhakar Raghavan ha richiamato il concetto dei “ten blue links”, con cui a lungo è stato identificato il motore di ricerca. Un programma apparentemente elementare, che tutti noi abbiamo utilizzato innumerevoli volte e che è sinonimo di Google stessa: inserisci una domanda o delle parole nell’apposito box, e dieci collegamenti rilevanti appariranno in ordine dinnanzi ai tuoi occhi.
Search, dice Raghavan, è sempre stato un connettore: gli utenti cercavano informazioni, presenti sul web, e anziché dare una risposta diretta Google andava a pescare dalla rete le pagine più rilevanti, all’interno delle quali poi trovare le risposte. Una formula vincente, per usare un eufemismo.
Ma il richiamo ai “ten blue links” non era un vezzo autocelebrativo, bensì contesto per il nuovo approccio di Google alla ricerca, il cosiddetto “Multitask Unified Model”, o “MUM”. (L’idea di fare domande e ricevere risposte dalla “mamma”, bisogna ammetterlo, è geniale.)
Il funzionamento di MUM, a ben vedere, non è poi così diverso dalle Cinematic Photos: il sistema raccoglie le informazioni della domanda, scandaglia le pagine del web, e ne unisce il contenuto rilevante per generare una risposta nuova e coerente, che da sé non è presente in alcuna delle pagine originali.
Un modello di intelligenza artificiale da manuale, del tutto simile al nostro modo di conversare e rispondere alle domande; ma, per una macchina, un sistema assolutamente innovativo e dirompente di concepire come fornire informazioni.
La demo, sbalorditiva, è qua sotto:
Google Workspace: too little, too late?
Un altro segmento intrigante del keynote, forse un po’ passato in sordina, è l’introduzione dei cosiddetti “smart canvas” all’interno della suite di produttività di Google, Workspace. L’idea è semplice ma efficace: utilizzare Google Docs come un canvas, appunto, all’interno del quale collegare in maniera fluida e immediata altri pezzi della suite — come ad esempio un Foglio o una presentazione in Slides, detti “smart chips” — esattamente come se fossero un link o un commento.
Ciò avviene perché gli smart chip scompongono i vari prodotti della suite in frammenti più piccoli, sempre alimentati dal web, che si possono integrare come se fossero delle piccole calamite. Utilizzando il cloud, dunque, mantengono in maniera consistente il loro contenuto, che verrà aggiornato in qualunque canvas si trovi. Immaginate di stare lavorando ad un grafico, ad esempio, e sapere che in qualunque canvas quel grafico sia presente potrà essere visualizzato nella sua versione aggiornata istantaneamente.
L’idea è smart, ma non del tutto innovativa; il Fluid Framework di Microsoft, proprio un anno fa, aveva già presentato una soluzione analoga, ovviamente con la suite di Office alla base. Cosa che ricorda, tristemente, che nell’ambito productivity Google è sempre un eterno secondo. Se da una parte l’idea di convertire i documenti fisici in pagine web (con tanto di integrazione via Gmail) poteva essere un’arma formidabile, l’azienda non si è poi mai mossa per sviluppare una vera e propria piattaforma su cui far convergere altri pezzi (le calamite) sviluppati da terze parti. Motivo per cui, anziché lottare ad armi pari con Microsoft, questa mancanza è stata coperta da prodotti indipendenti e separati come Coda o Notion.
Bisognerà capire se in futuro conterà più l’innovazione — che i due competitor appena citati offrono in abbondanza — o la forza distributiva di Google; Microsoft, nel frattempo, saluta ancora da lontano.
Tizen + Wear: torna lo smartwatch?
Il terzo, ultimo, breve punto riguarda gli smartwatch, e nello specifico il trascurato Wear OS. Dopo anni di sordina, senza mai emergere del tutto dall’acqua — schiacciato principalmente dalla ferocia dell’Apple Watch — il sistema operativo per wearable di Google lascia affondare la zavorra di quel “OS” nel nome e si ripresenta con un motore tutto nuovo, messo a punto da Google in collaborazione con Samsung e il suo Tizen.
Il che è quantomeno curioso, pur non sorprendendo più di tanto. Samsung aveva sviluppato Tizen nei momenti più tesi della lotta contro Google, dacché l’OS doveva essere un’arma del gigante coreano sia contro Wear OS sia, soprattutto, Android. Poi Tizen per smartphone è finito nel nulla, e il mercato dei wearables si è essenzialmente allacciato sul polso della sola Apple.
Motivo per cui la collaborazione, oggi, appare del tutto logica: unendo le risorse insieme anche a Fitbit, da poco entrata a far parte dell’ecosistema Google, l’obiettivo è quello di creare un prodotto che enfatizzi i reali punti chiave di uno smartwatch: la durata della batteria e la sua offerta di servizi legati a health e fitness.
Durante la conferenza, Google ha annunciato che nel mondo ci sono tre miliardi (!) di dispositivi Android. Un successo, è il caso di dirlo, planetario. Wear, invece, non ha ricevuto nemmeno una frazione di ciò, in parte a causa dell’assenza di device convincenti. Gli unici smartwatch validi, infatti, sono proprio quelli Samsung, a cui però è sempre mancato il supporto software per le applicazioni.
Mettendo a punto un prodotto (o più d’uno!) che combina l’hardware di Samsung con il Play Store di Google — e aprendo la nuova piattaforma Wear a tutti gli altri player — forse, il mercato degli smartwatch non-Apple potrebbe riprendere vita.
Non so se questa sarà una realtà che Google riuscirà a creare, ma forse vale ancora la pena tentare.